eterno rigurgito dell’adolescenza

silia gala
6 min readJun 16, 2024

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Silvia Gola e Sara Pennacchioli, a.d. 2006 (credo).

In provincia i panni sporchi si lavano in pubblico e io ringrazio di essere stata un’adolescente bruttina, di quelle per cui “Spietato e inesorabile è lo sguardo maschile” ma traslato in un liceo di provincia.
Ringrazio col senno di poi perché all’epoca avrei semplicemente voluto spararmi un giorno sì e l’altro pure pur di non esistere nel mondo col mio corpo del cazzo. Sull’armadio avevo scritto: “I want to die”, prontamente seguito da “hey, it’s a joke” (se mia madre poco poco capiva l’inglese le veniva un colpo — l’aggiunta rassicurante era per lei: dai mamma la tua bambina non vuole davvero morire, sta a scherza’). Mentre vergavo sull’anta dell’armadio le piccole parole stentate in inglese pensavo solo ai miei brufoli, alla ciccia, alla cellulite, alla forfora. Non c’erano altri grossi problemi nella mia vita, c’era solo l’imbarazzo di avere un corpo e non sapere che farne.

Dopo esserne ferita per anni e anni, nel non essere piacente a un certo punto ho iniziato a sguazzarci, provando l’ebbrezza di fare di tutto per nascondermi o imbruttirmi: top contenitivi per nascondere una terza di reggiseno, felponi, pantaloni con il cavallo basso, capelli multicolore, frangette asimmetriche, niente trucco, spillette, polsini, Converse bucate, e in generale tutto quello che potesse dare l’idea che io come soggetto mi stavo rendendo indesiderabile (e non che fossi al contrario non-oggetto di desiderio). Volevo maschilizzare il mio aspetto perché mi sembrava che i maschi vivessero meglio: erano liberi, erano arroganti, erano lasciati in pace — un privilegio che non ho avuto per tutto il liceo, quello dell’essere lasciata in pace.
D’altro canto, le femmine mi somigliavano meno dei maschi e anche per questo la mia scelta non era del tutto libera: maschilizzare sì ma solo perché femminilizzare era una strada preclusa a chi viveva come vivevo io e alcune mie sodali.
Quelle ritenute sexy alle medie, già piuttosto “scopabili” a 13 anni, erano 4–5, non di più, e tutte concentrate nelle stesse due classi. Sembrava che avessero scelto di aggredire alcune sezioni e popolarle con la loro bellezza diffusa e di lasciare altre sezioni sprovviste della loro capillare avvenenza. Non ci meritavamo tutte di avere come compagna di banco A.S., dea tredicenne che, durante la ricreazione, andava in su e in giù nel corridoio sicura degli sguardi inebetiti, jeans basso e maglioncini aderenti, mentre io e la mia migliore amica F. stavamo sulle scale, fuori dalla porta di emergenza, io a succhiarmi la manica troppo lunga della felpa oversize e lei a tirarsi un po’ più su i pantaloni da ginnastica della Legea.
A.S. era già pienamente fiorita, le curve giuste al posto giusto saggiamente sottolineate — nel momento esatto in cui combattevo contro un seno che non avevo mai voluto, le spalle ingobbite e pinguedini sparse.
I ragazzi che mi piacevano non amavano me ma amavano le ragazze come A.S. e con me si venivano a confidare, con me che li ascoltavo comprensiva fino al momento di tornare a casa e piangere ascoltando i Nirvana mentre dall’armadio occhieggiava la scritta che mi ricordava che io comunque nella vita volevo morire.
Sono io ma non sono solo io; chi non si è mai sentita sola al mondo, adocchiando di sottecchi le ragazze belle-capello fluenti-scollature generose, con la consapevolezza che il bello ama il bello e molto meno spesso il bello ama il simpatico?
Chi non ha mai sentito crollarle il mondo addosso perché quelle esperienze che tutte le altre avevano non arrivavano, quegli sguardi non c’erano, quel petting mitologico era confinato ai resoconti di G. nel cortile dell’oratorio che mi spiegava, per filo e per segno, dove S. le avesse messo le mani (cioè veramente dentro le mutande??? Ma si può o è peccato???).
Chi non ha mai sofferto come un cane perché qualcuno non si è preso la briga di indagare oltre le felpe oversize, i capelli brutti, le scarpe con le borchie? Ho sofferto per così tanto tempo che quando a 17 anni ho conosciuto la prima persona che volesse vedermi nuda stentavo a crederci: non pensavo potesse succedere anche a me, persino a me.

Però in provincia i panni sporchi si lavano in pubblico.
Che fine fanno le reginette delle medie quando le scuole medie e pure il liceo finiscono?
Un giorno di qualche mese fa incontro A.S. al supermercato del mio paese: è con la madre e stanno parlando della spesa che A.S. deve fare per lei e il suo fidanzato. Con una voce sgraziatissima ridacchia dicendo che quello magna come ‘n porco e che le tocca di comprare molta carne perché lui quando torna dal lavoro c’ha fame.
A.S., cosa è successo in questi quasi vent’anni che non ti vedo? Braccetto con la madre ex avvenente non arresasi, voce sgraziata, mollettone e sghignazzamenti sull’uomo medio che ti ha tarpato le ali. Non ti riconosco, A.S., e se io non riconosco te come faccio a riconoscere me stessa? Se tu eri il punto fisso della mia istruzione di secondo grado, come faccio io adesso a sapere chi sono?
Quella fioritura di quasi due decenni fa è finita in cenere, si intravede solo in qualche raro momento di sicumera — tipo quando si accorge che lo scaffalista la saluta perché forse hanno scopato un milione di anni fa — ma per il resto del tempo tiene la testa abbassata per concentrarsi sulle pietanze da offrire al suo fidanzato.
A.S. lo sa, lo sa benissimo e in modo spietato che il tempo migliore della sua vita è passato, che i giorni davanti sono cercare di scalare la strutturale piramidale di HerbaLife, compilare i 730, sperare che lui stasera non puzzi troppo perché le andrebbe anche che il loro solito mercoledì cotoletta+tv possa riservare dell’altro, vorrebbe magari veder tremare le tendine in macramé alle finestre, appoggiare un piede nudo con lo smalto fucsia sul pavimento in graniglia per poi andare all’attacco sul suo omaccione stanco. Intanto mette nel carrello affettati, formaggi e maionese — ne va ghiotto.

Le bone delle medie sono invecchiate precocemente e si ridestano un po’ se pronunci il loro nome, perché pensano che sia il loro talismano, un lasciapassare per la fama eterna. Lo sguardo troppo fugace dello scaffalista le ricorda che il suo nome è quello che molti hanno evocato a bassa voce nelle loro masturbazioni, il suo nome è stato scritto sui muri del bagno, il suo nome è stato avvelenato sulle labbra delle invidiose.
Non saprei dire quante volte, nel mio passato, io possa aver pronunciato il nome di A.S. perché per me lei era prima di tutto quella amata dai ragazzi amati da me. Era l’asintoto.
E invece cosa sei ora, A.S.? Al crocevia degli sguardi tra chi ti ricorda come la protagonista delle sue prime seghe e chi come la locale ma pur sempre temibile Regina del Celebrità, sei una donna qualunque, un po’ sciatta, un po’ rassegnata; e io ti invidio ancora, perché nonostante io sia carina ora — più di te — non lo sono stata nel momento in cui si formano le sicurezze. E tutti gli uomini del mondo possono dirmi che sono bella, che trovano il mio corpo sensuale e mille altre cose. Ma io, nella mia testa, vivrò per sempre tra il 2005 e il 2007, nell’eterno rigurgito dell’adolescenza e non sarò mai bella, nella mia testa, e quindi il mondo potrà pur sforzarsi di dirmi altro ma io non lo accetterò mai. Questo è il mio destino, mentre il tuo, ora, è tornare a casa e preparare una cotoletta generosamente cosparsa di maionese, sperando di vedere negli occhi di lui il motivo per cui dodici anni fa ha voluto essere il tuo perenne fidanzato: eri la più bona.

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