“Gli straordinari” sono quelli che dovete pagarci ma è anche un libro di Edoardo Vitale
Edoardo Vitale mi ha mandato il suo primo libro, Gli straordinari. E mi ha chiesto di fargli sapere cosa ne pensassi. Quindi adesso lo scrivo perché mi va.
Prima di tutto devo ammettere una cosa: il libro l’ho letto veramente. Anche se non ho fatto delle stories. Giuro.
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Il libro inizia davvero a pagina 16, quando cioè la brutta sensazione che ci si stia per inoltrare nel racconto lamentoso del cognitariato viene bruscamente scacciata: “I senior pretendevano di continuo nuova linfa dai junior, intuizioni geniali e provocatorie, che puntualmente si intestavano durante le presentazioni con i clienti. Io ero uno di loro. […]”.
La trama fa uno sgambetto all’aspettativa deprimente ma confortante di trovarsi tra le mani la storia di una delle figure junior della multinazionale pANGEA — ovvero il vinto, lo sconfitto, il perdente nel gioco dell’assegnazione delle risorse. Non perché ce ne sia troppa di letteratura su questo, non dico questo: quello che intendo è che l’io narrante è della schiera di quelli che ce l’hanno fatta ma conosce i rapporti potere. E molto spesso questo riconoscimento è gioco- forza appaltato a chi dai rapporti di potere ne esce ammaccato.
Non possiamo più, ad oggi, trovarci in una narrazione che abbia per protagonista un borghese/appartenente alla classe media che non checki di continuo l’origine molto materiale del suo privilegio — idealmente non possiamo, ma de facto ne siamo invasi. Vitale parla del vincitore alla lotteria, ma è un vincitore che riconosce il trucco dietro alla lotteria: per questo il punto di vista adottato mi sembra degno di nota.
Il materiale esistenziale con cui si viene introdotti alle dinamiche grottesche del mercato del lavoro del terziario avanzato sono Nico ed Elsa, una coppia di trentaseienni che, stando nello spazio del ‘fine lavoro mai’ in modo ambivalente, nella dialettica dentro/fuori dal mondo corporate sono ancora redimibili. Hanno un’anima, quasi sicuramente, ma se la sono come dimenticata nella frenesia di una vita fatta di tappe lavorative e acquisti utili a suggellare il novello traguardo, un po’ come i protagonisti di Le cose di G. Perec (un po’). Se non hanno più la nozione certa dell’anima, comunque, c’è l’inadeguatezza che, a tratti funziona da allarme in questo senso: “[…] Io rimanevo in silenzio al suo fianco finché di colpo non c’ero più. Ero presente in veste di testimone, ma la mia mente si era dispersa […]. Rimanevo lì, a quella distanza siderale, dove le mie inadeguatezze potevano scorrazzare libere”.
Il lavoro, ambientato negli interni di uffici saturi di luce artificiale, li ripara dalla luce naturale, li tiene in disparte rispetto a un fuori-di-lì dove accade la vita delle persone; dove accadono incendi, roghi, siccità sparsa, la crisi climatica; dove ci sono le azioni dimostrative degli attivisti per l’ambiente (in effetti, a me sembra di aver visto un avvitarsi della scrittura sulla questione della luce abbacinante che li investe ogni volta che lasciano l’ufficio, ma a volte è pure notte — mi sembra comunque un elemento epifanico di quelli che vorrebbe riportarli a galla della propria coscienza).
Nella grande multinazionale l’unico altro essere umano sulla via della de-programmazione è Quinto, con il quale Nico intrattiene delle conversazioni velleitarie e un po’ posticce, a mio parere. La resa dei dialoghi è spesso, nei romanzi del presente, un punto sensibilissimo, e in questo, secondo me, Vitale non passa il test: Quinto sembra incarnare didascalicamente, a livello narratologico, la funzione di aiutante ma schematico, così come lo possiamo ereditare dallo schema di Greimas. Indica la via per la realizzazione del desiderio — lasciare un certo modo di lavorare o direttamente il lavoro per acquisire libertà — ma ancora né Nico né Elsa possono veramente abbracciare questo destino.
E se le persone circostanti — Quinto compreso, ma anche la coppia di amici che vive in campagna (mi sfugge il nome, non andrò a mentire) — vengono presentati come fossero tipologie merceologiche in vetrina, schedati cioè secondo una gerarchia di caratteristiche caratteriali, traguardi, simpatie, possedimenti, gli oggetti al contrario sono pressoché umani. Sugli oggetti di cui si circondano i due protagonisti — per essere felici, per essere socialmente riconosciuti ma anche ecologicamente retti [parlerei forse di greenwashing cognitivo] — vengono spese molte parole, con una compulsione che mi ricorda alcune delle descrizioni de Il piacere di D’Annunzio (i miei riferimenti sono anacronistici).
Come a un certo punto proprio il protagonista rimugina: “Da quegli oggetti si levava un’aura tangibile di integrità che non riuscivo a ritrovare tanto facilmente altrove, neppure tra gli esseri animali che pure li avevano concepiti e prodotti […]”; “Da qualcosa nel mutare del rumore e dei colori attorno mi fu chiaro che Elsa si era svegliata. Significava che potevo finalmente passare il Dyson per tutta casa”).
L’ambiente è un mondo fatto di plastica, tranne che per gli oggetti che invece hanno la fortuna di essere assemblati con materiali più sensibili: anche la coppia di amici che raccontano della loro partecipazione a degli incontri online promossi dagli attivisti ambientalisti stanziati al Circo Massimo diventa subito un motivo di schermaglia (“‘Mi sono sentita un po’ giudicata da Daniele e Miranda l’altra sera’ disse Elsa. […] ‘Abbiamo partecipato a degli incontri online’ gne gne gne […]”), perché non viene concepita nel suo ruolo di rivendicazione ambientale ma è un happening, un evento sociale — è il falso come momento di un Vero che però non arriva, o comunque arriva confusamente nelle ultime pagine (ci torneremo).
L’unica scarica di serotonina che sfonda il muro della depressione e dell’ansia sono le notifiche di lavoro, la mediazione digitale indefessa, la consapevolezza di voler e dover ancora essere il criceto sulla ruota: che forma avrebbe la sensazione di vuoto se scoprissimo che alla ruota possono pensarci benissimo gli altri 37 criceti e dispensarci senza troppe remore? Quando Nico si sottopone a un check up lungo un giorno per capire bene gli episodi di cefalea, prova l’ebbrezza e l’orrore (“Da quanto tempo non mi trovavo fuori dall’ufficio di lunedì a mezzogiorno?”) legate all’essere temporaneamente fuori dai giochi del tardo-capitalismo.
Da lettrice che vuole essere ingannata fino in fondo e fino all’ultimo, però, mi sale un dubbio: com’è possibile che di questa emicrania lancinante, che ha una frequenza di una o due volte al mese, se ne parli per la prima volta a pagina 102? Dal momento, poi, che è un’emicrania che dall’evidente origine psicosomatica e un effetto di necessaria disalienazione rispetto ai ritmi tecno-entusiasti, me lo spiego ancora meno. L’emicrania rappresenta la breccia tramite la quale la verità sull’infelicità si fa strada e squarcia la coda di paglia dello stacanovista al suo apice.
Magari sono io a essermi persa i segnali disseminati nel testo, non so. La perplessità rimane salda al suo posto fino a smentita ufficial-autoriale.
Tutto è plastica, l’imprevisto è paurosissimo, e le vacanze non sono realmente tempo libero, ma elemento complementare del lavoro, il Carnevale della produttività: la frenesia con la quale Elsa tenta di prenotare velocemente un weekend in SPA non ha un aspetto meno artificiale delle pagine piene di preoccupazioni legate ai task da sbrigare. Non c’è paradiso possibile all’inferno. O forse c’è?
L’ultima luce di un mondo esterno che viene a tirare per la giacchetta il mondo delle luci artificiali è quella che occupa le pagine finali del libro: durante il p-Day, il grande evento verso cui converge la trama fin dall’inizio, quegli stessi radicali attivisti ambientalisti che sono antagonisti ma anche termine di paragone ma anche target papabile di pANGEA — il marketing non si incarica dell’ideologia –, entrano al Centro congressi per interrompere la sequela di interventi e talk che animano la giornata. Ma il loro intento non è interrompere e basta: vogliono portare via le persone, fuori da lì. In corteo, forse verso il mare.
In questo finale, c’è molta fretta (“All’improvviso tutto quello che fino a un attimo prima avevo creduto inattaccabile si sgretolava come una fantasia, come un sogno che incappava in una perturbazione del preconscio”) e un po’ di lirismo calato ex abrupto, non del tutto opportuno (“Tutto era successo, era successo davvero, eravamo esistiti, simultanei, in vita e in salute […]”).
Quando prima scrivevo che la partecipazione alle dimostrazioni contro la crisi climatica rappresentano “il falso come momento di un Vero che però non arriva, o comunque arriva confusamente nelle ultime pagine” intendevo porre un quesito sulla maniera sbrigativa con cui la narrazione si chiude. Perché, ancora come lettrice che vuole essere ingannata fino in fondo e fino all’ultimo, rimango pressoché spiazzata davanti a un’agnizione così repentina e totalizzante.
Non sono contrariata rispetto alla strutturazione del plot — fin da subito è chiaro che il giorno x verso cui precipitosamente si va è il p-Day — ma credo avrei voluto più pagine, un accompagnamento maggiore verso il finale molto politico, una disseminazione di dettagli che lasciasse intendere che, almeno per Nico ed Elsa, il mondo fuori ritorna a esistere fuori dalla ruota del criceto.
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Nota metodologica
Questa non è una recensione canonica, mi rendo conto: non sta finendo con un tirar le somme consolatorio che potrebbe recitare “Il libro di Vitale ci parla del problema dei nostri tempi: il modo in cui lavoriamo”, “È il miglior libro sull’ansia in circolazione”, “È un romanzo che non ha paura di affrontare il presente”.
Non è una recensione che parla di dominanti formali o di lingua perché ne ho già letto abbastanza altrove; ma è una nota di lettura che ha provato a farsi mimetica rispetto alla trama e ai personaggi, perlopiù, e può averlo fatto anche esibendo alcuni periodi estrapolati dal testo.
La lamentationes che posso avere personalmente riguardo allo stato di salute (o di malattia) della critica letteraria, solitamente, vanno in questa direzione: il libro viene preso come un’atmosfera ma manca spesso la “presa” vera e propria sulle parole.
Io, dal canto mio, non ho le competenze per assolvere al ruolo critico tout court, ma ho almeno provato a non prescindere dall’oggetto (il libro in sé) per parlarne come e unicamente di un veicolo di contenuti o incubatore di temi d’attualità (libro per sé, si potrebbe dire). È sempre quella vexata quaestio che si interroga su cosa dovrebbe essere la letteratura e cosa, di conseguenza, la critica letteraria: e io, al cospetto di un romanzo (così) letterario, credo sia un buon servizio procedere come ho fatto.