gualdo / riserva fosca
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Io abito in due mondi: la città e la provincia. Uno è l’elezione, l’altro è la provenienza.
La strada è solo una, e le tre ore di macchina che mi separano dal punto A al punto B sono la terza via, sono il mio star-bene nel tirar-le-somme.
In queste lunghe guidate in solitaria, se è consentito usare il termine ‘dialettica’ in un contesto così profano, allora sì, quello che vivo è un momento dialettico in cui la sintesi è solo e unicamente lo stare dentro il veicolo che mi scaraventa a centodieci chilometri orari verso una delle mie due patrie. Abito in due mondi, e mi sento a posto solo nella doppia cittadinanza.
Quando alle mie amiche di città parlo dei miei amici del paese, e quando alle amiche del paese dipingo le mie amicizie cittadine — in questo trasbordare sono grata di essere in possesso di un passaporto duplice. Le persone di città non mi avranno mai — quelle di provincia non mi hanno mai avuta. Non ho scelto di nascere dove è successo invece il parto materno, ma ho scelto di vivere dove mi trovo oggi per la maggior parte dei mesi. Ma ogni volta che penso che posso vivere contenta oggi in un posto che non è quello delle origini mi dà solo l’indizio che è quel posto bistrattato, con il quale non sono ancora venuta a patti e con il quale ancora non ho fatto pace, che ha messo sul tavolo le condizioni per lasciarlo. Come un genitore consapevole del suo ruolo al di là da sé: somministrare la giusta quantità d’amore per far volare lontano dal nido l’oggetto stesso dell’amore. Come un genitore che sappia radicalmente sapere e riconoscere che un figlio è altro da sé, non una proiezione di revanscismo, di rancori sopiti, di vite controfattuali.
Mi fa anche pensare, poi, che la provenienza cittadina non è in grado allo stesso modo di consegnare in mano alle sue figlie possibilità di farsi superare nel progetto di vita, di rendersi inaccogliente, di sapersi fare da parte in quanto nido compresso a suo particolarissimo modo. Non nei contenuti, ma nella forma del suo solo essere in un modo e non in un altro.
In quelle tre ore in macchina, al sicuro nel carapace metallico che mi disloca e mi butta in faccia la necessità di riflettere su B. e G.T. non escludentesi ma accoppiate, trascorro il tempo a fingere conversazioni che non ci saranno, domande che non saranno poste, curiosità che non vorranno essere soddisfatte. In quelle tre ore in macchina, nella mia mente mi fingo la principessa emissaria dei due mondi, colei che traghetta gli echi del socialismo da una parte, e i racconti della barbarie dall’altra. Con ogni probabilità e anzi ogni evidenza sto attribuendo il socialismo alla città e la barbarie alla provincia, da vera dualista insopportabile e snob.
Gualdo è il mio ineliminabile letterario perché qui sono tenuta, per spirito di sopravvivenza, a sospendere il mio politico; Bologna è il mio pulsante politico mai mitigato che, a volte, manca di carne viva, occhi che conosco, mani che posso toccare.
A Bologna non c’è bisogno che io dica a una mia amica che comprare su Shein è praticamente un atteggiamento criminale; a Gualdo il discorso deve essere fatto, argomentato, sostenuto, spiegato. A Gualdo le mie doti argomentative sono messe alla prova, a Bologna siamo sempre tutti e tutte d’accordo sui fondamentali.
Ma a Gualdo sono molto più immersa in un contesto eterogeneo dove le mie necessità personali sono meno importanti di quelle del gruppo, familiare o amicale che sia, e dove le forme di vita che non smetterò mai di giudicare sono il mio contorno continuo, sono le mie persone più vicine, quelle con cui mi raffronto di più.
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Il posto da cui vengo io ha una piazza raccolta che non ho ritenuto mai abbastanza ‘piazza’, alle sue spalle ha una montagna dove cercare fresco che non ho ritenuto mai abbastanza montagna, a venti minuti di macchina ha agriturismi in pietra e portate generose che non ho mai valutato realmente preziosi e costole di colline lungo le quali si snodano paesini di poche centinaia di abitanti. È né carne, né pesce — non sono le brusche montagne dolomitiche o la mollezza del posto di mare. Il posto da cui vengo io è collinare.
È solo nell’assunzione di uno sguardo del viaggiatore dal nord o da sud, mi pare, che capisco qualcosa in più di questi nostri luoghi: il fresco della montagna a pochi passi non è scontato, i vicoli medievali non sono il paesaggio tipico di tutte le regioni, il rapporto uno a uno con il bottegaio è una cosa che in molti non hanno mai vissuto. Lo penso intensamente mentre, per aspettare un’amica, decido di andare un po’ in quota per sentire i brividi di freddo a fine luglio. E mentre lo faccio, arriva una consapevolezza sconcertante nella sua banalità: questo non posso farlo altrove. Questa è una cosa che si fa qua.
Com’è nascere in un posto così d’incanto?, mi chiedono ogni tanto le persone dall’hinterland milanese o dall’entroterra calabrese. È la cosa più importante che ho — e non per qualche destrorso mito delle origini. Mi sembra che a volte io risponda così, ma forse non è vero; forse, la maggior parte delle volte, lo echeggio solo nella mia testa dove vivo la maggior parte del tempo e dalla quale vengo fuori di rado senza la paura di passare per una squilibrata in preda ai deliri. Mi accodo alle conversazioni che percepisco intorno.
Alla psicoterapeuta spiego che le cose mi si gonfiano in testa ma non trovo facilmente strutture idonee in cui riversare e sgonfiare. Sarà l’autonarrazione galoppante, sarà che ho letto troppo e sempre tentato la via della scrittura.
A volte mi chiedo quanto io debba essere stupida per accorgermi con questi ritardi clamorosi di ciò che mi circonda, mi anima e mi determina; altre volte mi chiedo per quanto tempo ancora dovrò pensare sempre gli stessi pensieri, senza trovare altre parole, più nuove, meno noiose.
Le stelle di qui, la notte totalizzante di qui — ho capito il biglietto di addio di Virginia Woolf al marito: “Per sempre le ore”.
Le stelle di qui, la notte bituminosa di qui — ho capito il testo di Signore del bosco: “Ricordati da dove vieni / Ma vai verso i tuoi desideri”.
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La provincia è post-femminista?
Siamo stati a vedere Miss Italia nella piazza della posta e mi è stato chiaro che oramai non posso assistere a tutto. O meglio, posso con la conseguenza di stare male per giorni a rimuginare sul mio paese, l’intrattenimento diverso da luogo a luogo, l’istupidimento a cui l’assuefazione a certe consuetudini può portare. Mi dispiace che il mio paese ospiti Miss Italia più del fatto che ancora esista Miss Italia come concorso di bellezza. Vorrei almeno lo facessero altrove, che si trovassero pure un altro fazzoletto di provincia da rincretinire. Lasciateci con le sagre, le bande locali, le cantanti sbrilluccicanti e le serate di basket — può bastarci.
Lui non era divertito né faceva sguardi languidi: ogni volta che ho problematizzato mi ha dato ragione facendo spallucce. Per lui alcune cose sono innocue: per me non lo è più nulla. Si è sgretolata la spensieratezza, se ne è volata via ogni possibilità di superficie.
G., un’amica di quasi sessant’anni che nella vita non fa molto altro al di là del suo lavoro usurante né ha troppo tempo per pensare al femminismo, mi ha guardata, ha guardato solo me mentre lo diceva; era incerta ma ha detto “Certo, lo trovo un po’ avvilente per le donne”.
Ho un’ideologia che non mi permette di godere dei culi delle donne su un palco. Se ‘ideologia’ fa paura, si permetta almeno l’utilizzo di ‘mondo mentale’; tutte e tutti hanno un mondo mentale ma estrinsecarlo è un’altra faccenda — e subìrlo sempre sempre sempre senza pause un’altra ancora.
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Rincorrere il tempo per vederlo, sentire che mi manca la terra sotto i piedi perché per un mese va via, sapere che non esisterà per sempre, estate dopo estate, la possibilità di vederci dopo una telefonata veloce per prendere un gelato insieme, informarmi ossessivamente riguardo al suo ginocchio. Ascoltare sua moglie che mi parla degli ultimi giorni di lavoro, vedere una luce intrisa di malinconia già pochi giorni dopo la fine dell’età utile alla società. Vedere che mi prometti che da settembre, da settembre sì avrai tempo per venire a fare i lavoretti di manutenzione nella mia tana. Sapere mesi dopo che l’incipit di un mio articolo ha fatto commuovere te, e lo hai fatto leggere a un tuo amico che si è commosso anche lui perché ha riconosciuto la persona di cui parlavo.
Queste sono le cose riguardo a te che mi rendono felice e che non ti dirò mai perché mi vergogno dei miei sentimenti nei tuoi confronti.
Per sbaglio stavo per inviarti questo testo che parla di noi, di me e di te — la verità è che te l’ho inviato e l’ho cancellato subito perché mi è bastato sentire il baratro che avrei spalancato su quello che penso e la lontananza con quello che lascio trapelare, e so che certe cose fanno parte del mondo dei vivi a cui tu non devi avere accesso. Ti spaventeresti o forse ti emozioneresti — e però non me lo diresti mai. Perché le emozioni me le dici en passant, a un pranzo di amici in montagna, mentre versi il vino a un estraneo su cui ti va di fare un po’ colpo, al quale ti va un po’ di far sapere che hai una figlia che fa un certo tipo di cose.
«Ci siamo fatti di nuovo quasi sei ore di macchina insieme; lui, che ha la nomea di essere taciturno, ha comunque parlato più di me. In realtà negli ultimi anni è diventato ciarliero rispetto a prima, gli piace far vedere che è appassionato a ciò che fa. Cerca di comunicarmelo in tutti i modi. Se parlo io, prende spunto da quello che dico e lo vedo che un po’ è soddisfatto di come ragiono. Secondo me pensa che, al netto del fatto che non ho né i suoi occhi né la sua bocca (ma la sua gobba sul naso sì), qualcosa deve averlo infuso in questo corredo genetico. Più metafisicamente che non nella pragmatica dei rapporti quotidiani qualcosa è passato. Sarà stata la casa abitata insieme poche ore a settimana, sarà stata la libreria. Ma sa che vado nel mondo e me la cavo e io una volta ero una cosa piccola che si teneva dentro un cesto di vimini (perché era un po’ tirchio per comprarmi subito un passeggino).
I nostri discorsi si sfiorano ma mentre lui brilla parlando di aziende energivore, io ho poco da offrire sul piano delle cose reali (ma sto tentando di migliorare) e cerco di tirare un po’ più dalla parte mia per far capire che in qualche modo strano tutto si regge insieme. La cultura, l’industria, le relazioni, la città, la provincia — è tutto insieme, non siamo separati da barricate, le distinzioni sono insane.
La pensione lo spaventa di meno perché si è messo a studiare che tipo di viaggi può fare una volta che il lavoro sarà finito; parla di import-export di prodotti da terre adriatiche; parla di cose della nuova famiglia di cui può parlare solo con me. E io mi faccio confidente di mio padre come fosse un amico. Analizzo i suoi guai dentro il nucleo che mi riguarda solo una volta ogni 2 settimane. Suscito riflessioni da parte sua, cerco di farlo ragionare un po’ mentre si sfoga e mentre riporta frasi dette in modo descrittivo, senza introspezione. Cerco di carpirla io un po’ di sta introspezione; non me lo permette più di tanto.
Ogni volta che sto con lui continuo a sentire la stessa banale canzone di Mia Martini: mi arrendo, sarà per sempre così — e ciononostante solo chi sa che si muore accetta di buon grado di parlare per quaranta minuti dei granchi blu dell’Albania.»