il pudore e l’ipocrisia

silia gala
5 min readOct 13, 2023

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Stavo per mettermi a scrivere una cosa molto spocchiosa sul pudore che provano le persone che fanno un lavoro culturale nei confronti dei lavori fatti di mani, fatica, tempo impiegato a parlare con gli altri, esposizione al pubblico, ripetitività delle mansioni, ma non mi chiamo Vincenzo Latronico per fortuna.

Ero proprio in procinto di provare a teorizzare come la lontananza dai mondi materiali e materici provochi un certo pudore nel trattare con le persone che abitano in una sfera lavorativa diversa, fatta di gestione di materiali e oggetti, e non di concetti né parole. Stavo per dare per scontato che chi lavora con le mani non lavora con i concetti, ero quasi pronta a sostenere che chi abita un mondo lavorativo non verbale non abbia una competenza linguistica.
I processi alle intenzioni sono noiosi, alla lunga; eppure pensare di scrivere che chi lavora nell’alveo dell’immaterialità avverte un certo pudore quando si relaziona con chi si affaccenda con mondi lavorativi lontani dal proprio perimetro… Be’, è odioso, oltre che noioso. È più consono — per portarsi a casa la propria pellaccia — uscirsene con una frase su di sé, misurando sulla lunghezza della propria esperienza il valico tra dicibile e indicibile.
E dunque.

Questa estate stavo lavorando a bordo piscina, e c’era Lillo, un uomo tunisino che si industria da anni intorno alla mia famiglia per tutte le manutenzioni che ci sono di volta in volta, di stagione in stagione, da fare: gli ulivi da potare, il muretto su cui rifare la calce, le inferriate da scrostare, il cancello da ridipingere, le erbacce da estirpare.
Ogni volta che negli ultimi anni sono andata a casa di mia nonna l’ho trovato con il corpo, piccolo e tonico, aggrappato a qualche problema materiale cui ovviare con la sapienza dei suoi trent’anni di esperienza sul campo, con la competenza linguistica di saper chiamare gli eventi con il proprio nome e, di conseguenza, con la soluzione loro propria.
E quando, durante questa l’estate passata, lui stava muovendosi su e giù per il prato con il tagliaerba, facendo grandi sacchi neri pieni di frasche, e tergendosi la fronte sudata sotto il sole di agosto, mentre tutto il suo corpo piccolo e tonico si affaticava per guadagnare i soldi — uno dei due elementi di un’equazione in cui l’altro elemento al di là del simbolo dell’uguaglianza è la ‘fatica fisica’ — io ingobbita, riparata nel fresco del casottino bordo piscina, il corpo molle adagiato su due sedie per far circolare meglio il sangue nelle gambe, le mani nei capelli sporchi ad attorcigliare ciocche per trovare l’ispirazione per una pagina particolarmente ostica, ero intenta a ricordarmi che per me guadagnare i soldi è uno dei due elementi di un’equazione in cui l’altro elemento al di là del simbolo dell’uguaglianza non c’è la ‘fatica fisica’.
In questa modalità corporea desueta se associata al concetto di ‘lavoro’, annunciavo a Lillo che sì, stavo a bordo piscina a prendermi il fresco però no, non potevo farmi un tuffo e stare a mollo perché stavo lavorando, per l’appunto. Lavorando?, mi chiede lui. Lavorando, dico io. Mi vergogno a dirglielo perché i nostri corpi stanno subendo cose molto diverse tra di loro mentre entrambi stiamo portando a compimento la cosa per cui l’essere umano sembra essere programmato nella sua età adulta: il lavoro. Lui sudato, affaticato, energico sotto il sole lavora. Io pigra, sbadigliante, borghese nel mio controllare di non essere in preda alla pressione bassa, in cerca di un avverbio non troppo enfatico all’ombra lavoro.
Mi fa un sorriso: ah ma studi! E io rimarco (ci tengo sempre a rimarcare, purtroppo) che no, sto lavorando, e che il lavoro che faccio è fatto in un modo e che sì, potrebbe sembrare che io studi ma in realtà è lavoro, vengo pagata dentro la mia equazione soldi = posizione seduta + status.
Sto per sorridere e dirgli che forse a livello orario prendo meno di lui, ma è una bugia e mi sento infima anche solo per aver pensato di comprarmi la sua fiducia così. Lui fa un cenno accogliente come a dire: non capisco ma va bene così, so di non poter capire granché di lavori così lontani dal mio. In quel momento non lo so, ma per me è uguale: so di non poter capire praticamente niente del lavoro che fa lui. Mi rimetto a testa china a picchiettare sulla tastiera, fumo la sigaretta elettronica al lampone e per molto tempo non smetto di pensare a lui che fatica e io che fatico a trovare soluzioni linguistiche.
È successa una cosa simile due-tre settimane fa quando ho chiamato una signora per chiederle di pulire i due armadi nella casa nuova, qui a Bologna. Lavoro da casa e quindi non c’è problema, può arrivare quando vuole, le ho scritto per messaggio. Mi ha mandato un pollice in su per dire ok.
È salita piano sui quattro piani di scale senza ascensore, l’ho fatta accomodare, le ho offerto acqua e caffè, si è complimentata per la casa e poi le ho mostrato gli armadi, i prodotti per pulire, gli stracci, le spugne, la scala da usare. Ho squarciato un lenzuolo perché gli stracci che avevo non le sembravano utili ai fini di pulizia. Poi mi metto sul divano a lavorare, e mi raccomando: per qualunque cosa sono di là in soggiorno. Lei ha indossato dei panni da lavoro ed è salita sulla scala. Mi sono messa sul divano, sempre adagiata e sempre indolente, sempre con il computer a portata di mano. La cosa peggiore? Io non dovevo davvero lavorare. Ho passato il tempo a fare piccole cose para-lavorative (è comunque un problema il non saper conteggiare come quota lavoro attività quali trovare i contatti, fare dei preventivi, farsi venire in mente delle idee efficaci per tenersi stretto un committente) mentre in sottofondo avvertivo la presenza della signora salire e scendere dalla scala, spruzzare i detergenti, emettere flebili versi di fatica per rimuovere il giallino dei grossi armadi bianchi — il problema di giallitudine per cui è stata chiamata in casa da questa stronza di 32 anni che sta comoda sul divano a immaginare preventivi per il suo lavoro culturale mentre a 4 metri da lei una signora di più di 60 anni, con forse già diverse altre ore di lavoro sul groppone prima di arrivare qua, si spolmona su una scala traballante per pulire un armadio ingiallito.
E di nuovo, in uno spazio tutto sommato ristretto, vengo rimandata alla natura cangiante del concetto-ombrello: lavoro può essere stare sopra una scala, rimestare pensieri confusi su un foglio word, pulire le pentole per far mangiare 50 persone, indire riunioni su riunioni perché non si ha la più pallida idea di cosa debba fare il proprio reparto nel semestre di là da venire. Quante cose sono lavoro, e quanto pudore si prova nel dire a una persona che fatica che anche la propria attività, che di fatica fisica ne comporta ben poca, è un lavoro, per l’appunto. È una presa d’atto letteraria e non politica della vastità dei lavori e di come estroflettendo questo concetto al suo massimo ci troviamo di fronte a un’alterità difficile da digerire. Forse perché noi per primi, proiettando, pensiamo di essere difficili da digerire agli occhi altrui, e forse un giorno sapremo che agli occhi altrui siamo così poco importanti, così poco esotici da guardare. Forse un giorno scopriremo che il nostro unico privilegio di lavoratori per la cultura, della cultura, dietro la cultura è trovare interessanti gli altri e scriverne; e che possiamo scomparire, non visti, nell’indifferenza che l’alterità prova per noi. Per fortuna.

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