Lavori di merda

silia gala
13 min readMar 3, 2024

--

Stiamo aspettando che il tipo del Blablacar arrivi e in zona Fiera, per riscaldarsi dal dicembre bolognese, non c’è niente oltre a un cantiere onnicomprensivo e alla nebbia: non ci resta che entrare nel foyer del multisala. È uno di quei posti rarissimi da vedere vuoto: non c’è davvero nessuno, a parte noi due e la ragazza addetta al bancone.
“Che lavoro di merda”, dice la ragazza di 21 anni che aspetta con me il passaggio per il Trentino.
“E perché?”, chiedo io.
“Boh, cioè io non lo farei mai: qua da sola, senza nessuno in giro…”.
“Pensi sia meglio fare la commessa di Calzedonia in centro, tra spazi minuscoli, neon accecanti, aria calda che secca gli occhi e la gola, clienti che si spingono a vicenda per accaparrarsi collant?”.
“No, be’, hai ragione… Forse meglio qua”.

Ho avuto questa conversazione nel periodo in cui stavo cercando la chiave giusta per questo pezzo e ho capito che, alla fine, dell’espressione ‘lavoro di merda’ mi interessa soprattutto la disinvoltura con cui viene usata, non tanto il contenuto che illustra. Alcune persone mi hanno mandato la loro testimonianza e la loro visione di cosa sia un ‘lavoro di merda’, con altre ne ho parlato dal vivo, altre suggestioni ancora mi vengono dal fatto che a questioni del genere mi interesso spesso e volentieri.
Quando ho iniziato a pensarci ero a un’occasione sociale che vedeva la partecipazione di persone variamente assortite ma perlopiù tutte inserite in qualche industria culturale e creativa e una di loro, che lavora in tutt’altro campo ma aspirerebbe a entrare in questi settori, parlando di sé ha definito il proprio lavoro — indeterminato, in ufficio, con straordinari pagati — un ‘lavoro di merda’. E sono rimasta là a pensare, perplessa e mi sono chiesta: davvero siamo arrivati a questo punto? Quello che mi è venuto in mente di risponderle lì per lì è stato questo: guardare i lavori del cognitariato dallo spioncino della porta porta a non capire quanto, da dentro, alcuni lavori siano di merda quanto i loro. Non so come altro spiegare a una persona esterna quanto fare sei ore di bozze nello stesso giorno e arrivare allucinati a fine giornata è equiparabile a molti altri lavori alienanti se non farle esattamente questo esempio. Anche i lavori ritenuti socialmente belli sono fatti di tanti minuti e ore di noia, senso di spaesamento e bruttezza.

È a questo punto che comincio a cercare di raccogliere alcune prospettive in merito all’uso dell’espressione ‘lavoro di merda’ perché, ovviamente, l’espressione colorita di certo mi riconduce a voler deromanticizzare il lavoro culturale, ma non è solo questo. Il materialismo di reazione che abbiamo noi che proviamo a sgattaiolare fuori da un certo modo di intendere i lavori immateriali (quelli che nessuno pensa siano lavori del cazzo o lavori di merda) è solo in parte quello che mi interessa.

Ho provato a chiedere in giro per capire se su lavoro di merda si possa convergere in modo intra-soggettivo — né oggettivo né soggettivo — perché, come scrive qualcuno che mi ha mandato la sua opinione anonima:

“L’analisi oggettiva non porta a niente, nel senso che potrai sempre trovare gente che sta molto peggio di te. Uno che raccoglie i pomodori per due spicci in Calabria sotto un caporale probabilmente qualche volta penserà pure: ‘Be’, ma tutto sommato poteva andarmi peggio, potevo essere in una miniera in Congo con un fucile puntato mentre lavoro’. L’analisi soggettiva però è anch’essa poco utile: c’è un sacco di gente che fa una vita pessima ma crede di avere un ottimo lavoro perché non ha riferimenti di come potrebbe essere meglio e normalizza il proprio sfruttamento, o lo proietta sul resto del mondo. ‘È così dappertutto’, ‘C’è la crisi’, eccetera. C’è poi una questione di carattere: c’è chi non si accontenta mai e considera tutto un lavoro di merda, e chi invece sopporta tutto”.

Verrebbe quasi da dire che se li guardi da vicino, nessun lavoro si salva dalla definizione di lavoro di merda. Perché? Perché in alcuni casi è il contenuto stesso del lavoro a essere deludente: quando si pensa a questo, vengono forse in mente gli operatori dei call center, le promotrici, le vendite porta a porta. I lavori in cui accade progressiva perdita di senso, di contatto con la realtà e, nel peggiore dei casi, la perdita dell’idea di poter avere effetti sul mondo. Un’altra cosa è invece quando si starebbe anche facendo il lavoro che piace o per il quale si è portati o si ha studiato, ma le condizioni oggettive lo rendono comunque ugualmente merdoso.

Questo pezzo, quindi, con questo cappello-premessa e attraverso l’esibizione di alcune delle testimonianze arrivate, prova a dire una cosa che non può affondare nel ritratto sociologico, ma che vuole fermarsi a interrogare quell’uso disinvolto di cui sopra.
C’è una soluzione allo smettere di pensare al proprio lavoro come un lavoro di merda? Forse, per smetterla, dobbiamo prima tentarne una definizione.

Cal Newport, nel suo So good they can’t ignore you, scrive così:

“By the summer of 2010, I had become obsessed with answering a simple question: Why do some people end up loving what they do, while so many others fail at this goal? It was this obsession that led me to people like Thomas, whose stories helped cement an insight I had long suspected to be true: When it comes to creating work you love, following your passion is not particularly useful advice”.

+++

Nel 2017, fresca di laurea magistrale, ho fatto un vero bullshit job à la Graeber: uno di quei lavori che a fine giornata ti rendono più stupida e più infelice, un lavoro di cui nessuno sentirebbe la mancanza se non ci fosse. Tu che lo fai, meno di tutti gli altri. Lavoravo con un contratto co.co.co., e le mie mansioni consistevano in distribuzione audio-guide e servizio guardaroba in un noto museo di Bologna. Per 5,23 euro l’ora. Ero sicura che il monte-ore in cui mi vedevo costretta a starmene buona nel gabbiotto un giorno avrebbe portato a un vero riscatto: tutto mi pareva simbolico, dalla maleducazione degli utenti museali all’impossibilità di fare pipì per 5 ore di fila. Il lavoro di merda che facevo acquisiva un rilievo epico nell’ottica di un fantomatico riscatto perché un lavoro del genere lo si svolge per accompagnare gli studi universitari, per pagarsi i vizi, per pensare che un giorno lo racconterai con un sorriso post-ironico.
È quando il lavoro non è opera… Ma il lavoro può davvero essere opera? È forse risaputo come nella lettura arendtiana, il lavoro, contrapposto all’opera, rappresenta l’insieme delle attività umane i cui risultati non hanno consistenza anzi vengono subito annullati o distrutti.

D’altronde, la differenza tra una pagnotta, la cui permanenza nel mondo ammonta a poco più di un giorno e un tavolo, che può arrivare a servire generazioni di individui, è senza dubbio più lampante della differenza nella vita del soggetto producente, un fornaio o un falegname. Entrambi lavorano, sì: ma durante le ore del lavoro, non vivono forse anche ore di lavoro diverse mentre producono cose?

Parliamo, oggi, della sindrome dell’ape impegnata di continuo in segmenti di pseudo-produttività, elemento che contraddistingue gran parte del lavoro impiegatizio.
E, soprattutto, facendo questi esempi stiamo ancora parlando di mestieri che producono qualcosa: cosa succede quando ci mettiamo a pensare ai lavori del terziario, tipici dell’era post-industriale dove sembra che non si produca più davvero niente?

Come suggerisce un’altra testimonianza anonima: “Stanno quindi per me due assi cartesiani dove collocare la qualità del lavoro: l’asse pagamento — contratto, l’asse divertimento realizzazione di sé. Organizza il mondo del lavoro su sti due assi, e troverai una serie di soddisfacenti risposte nei 4 quadranti”. Lo dicevamo prima: contenuto e condizioni.
Quello che vorrei fare ora è semplicemente mettere uno dopo l’altro alcuni dei contributi che mi sono arrivati. Per quale motivo? Perché qua stiamo provando a fare una cosa diversa rispetto a una cosa scritta da una sola persona, ecco perché.

jg

Ritengo di svolgere un lavoro di merda in quanto fare l’infermiera in Italia (a meno che non si abbia il privilegio di poter studiare visti i costi di master e specializzazioni) prevede di svolgere le stesse identiche funzioni […] senza margine di crescita, in un ambiente poco stimolante e nella scarsità di risorse. Dove il proprio essere non conta nulla, non esiste distinzione fra l’impegno e la nullafacenza, la conoscenza e l’ignoranza, ma tutto è mescolato in onore dell’unica cosa che conta: l’équipe.

Il tutto accompagnato da salari che, fermi da decenni, hanno ridotto drasticamente negli anni il potere d’acquisto della nostra categoria. Unica gioia (e per molti solo grazie al covid): il posto fisso.

af

Un lavoro di merda è un lavoro che sottopaga rispetto alle proprie competenze, un lavoro con ambiente tossico e che, al netto degli straordinari pagati, richiede 60 ore alla settimana almeno di impegno e reperibilità assoluta (non retribuita). […] A questo si aggiunge che comunque non basta a tenere il passo con il costo della vita a meno che tu non viva in una catapecchia con due sconosciuti. Comprare casa impossibile; primo scatto di carriera e salariale serio fra dieci anni.

fq
[…] Attualmente il mio lavoro in un ristorante è abbastanza soddisfacente perché mi occupa un numero ragionevole di ore, paga decentemente rispetto alla media del settore e si svolge in un ambiente buono. Questa identica mansione è stata un lavoro di merda per un sacco di anni semplicemente perché l’ambiente era tossico, gli orari insostenibili e il salario uno scherzo. La medesima cosa è applicabile a un amico che ha fatto il supplente, prima in un istituto tecnico ma in condizioni buone e l’anno dove si trovava a sostituire due persone invece che una.

sk

Dopo mesi di questo lavoro pagato male e inutile, vedo arrivare la possibilità di un lavoro da ufficio. Passo ore a escogitare frasi accattivanti e testi iper-brevi per star dietro alla molto bassa attenzione media dell’utente social e torno a casa ogni giorno ossessionata dall’idea che con questo lavoro contribuisco a rendere il mondo un posto un po’ peggiore, non faccio che accrescere il rumore, il brusio imperdonabile di questa Babele delle informazioni e degli stimoli. Questo è il mio incubo peggiore: un lavoro in cui ci sono alcune comodità e, in virtù di questo, lo si potrebbe fare per sempre, a tempo indefinito.

au

Faccio un lavoro d’ufficio a tempo indeterminato con straordinario pagato (be’, forfettizzato) e spesso lo definisco “lavoro di merda”. Per la precisione faccio il responsabile ufficio legale in una società della metalmeccanica che sopravvive grazie all’industria degli idrocarburi. Quando dico “lavoro di merda” non uso l’espressione in senso comparativo con altri possibili impieghi rispetto ai quali questo si qualificherebbe come lavoro di merda. A rifletterci probabilmente lo uso come una sineddoche, traghettata dal fatto che quando il lavoro si mangia la vita quest’ultima diventa una merda. A quel punto “lavoro di merda” diventa più che altro la speranza di avere ancora una via d’uscita.

fg

A mio parere ci sono diversi modi per definire un “lavoro di merda” se consideriamo che i due elementi/dimensioni da tenere in considerazione sono: la qualità dell’esperienza lavorativa stessa (orari, condizioni lavorative, rischi fisici, ambiente sociale, bullismo, molestie sessuali, percezione del pubblico…) e la remunerazione/ora. […] Ho la sensazione che chi ti parlava di “un lavoro di merda” riguardo a un impiego di ufficio pensava a un’altra, una terza dimensione trasversale alla coppia condizioni — remunerazione.
Quella del significato che il lavoratore stesso attribuisce al proprio lavoro, e la soddisfazione che ne trae, indipendentemente dalle condizioni in cui deve lavorare e da quanto ci guadagna. […] Forse che esistono solo 2 categorie: i “lavori realizzanti” e i “lavori di merda”?

fc

Definisco lavori di merda tutti i lavori che rendono una persona insoddisfatta. Non esistono lavori belli o brutti di per sé, si possono trovare soddisfazione e frustrazione in qualsiasi attività. Per troppo tempo, secondo me, abbiamo associato la bellezza del lavoro a due fattori che ritengo sia necessario ripensare o eliminare del tutto: la remunerazione economica e il prestigio sociale. Da un lato mi sembra inaccettabile dare prestigio al lavoro perché economicamente vantaggioso; dall’altro, però, trovo ancora peggiore riconoscere un implicito valore morale a lavori sottopagati soltanto perché “dignitosi” o “socialmente importanti” (mi vengono in mente, ad esempio, l’insegnante o l’infermiere).

cj

Il fatto è che riguardo al lavoro di merda cambia la sfumatura della merda a seconda della prospettiva. Io ho una consistente esperienza di lavoro di merda, che però consideravo di merda secondo i momenti. Leggi: 7 anni di call center. 35/40 ore settimanali. Molti di questi anni di call center già laureata in filosofia, e presa dalla questione seconda laurea in psicologia. Rispetto alla mia lettura di me stessa, una cagata di lavoro, e anche rispetto alla qualità del tempo, a quello che facevo, a con chi stavo. Contratto a termine lavoro su turni, alcuni dei quali a cottimo. Rispetto alla maggioranza dei colleghi, ho amato moltissimo quelle condizioni contrattuali, perché non volevo essere definita da quel contratto, e sono sempre stata, per delle cose bizzarre della personalità e del carattere, una cottimista di grande successo, l’azienda era scrupolosamente precisa su data di pagamento, straordinario e in più, aveva la rara cosa per cui chi non riusciva a ottenere un minimo sindacale della media oraria ha potuto a lungo avere la paga media anche se produceva meno interviste. Il cottimista invece — io — prendeva di più.

ac

Il lavoro di merda italian style, secondo me, è il lavoro fantozziano, aggiornato alla versione Frank Gramuglia. È lavoro dipendente, perché si caratterizza per la sottomissione a un capo (da cui si ricevono più o meno quotidiane vessazioni) e dall’inserimento in un’organizzazione, con le relative assurdità e le costrizioni incomprensibili. È un lavoro pagato poco e senza prospettive. Ma è soprattutto un lavoro di cui sfugge il senso, in cui il lavoratore torna a casa senza aver capito a cosa servono la sua fatica e i suoi sforzi. […] Timbrare un cartellino tutti i giorni senza sapere perché lo si fa è una condanna.

+++

Nell’introduzione a “Cento lavori orrendi” (a cura di Dan Kieran, 2007) la traduzione di una rubrica andata in onda su “The Idler” per molti anni, il direttore Tom Hodgkinson scrive che:

“Con qualche piccola eccezione, il mondo del lavoro è caratterizzato da noia esasperante, tedio insopportabile, povertà, invidie ridicole, molestie sessuali, solitudine, colleghi squilibrati, capi arroganti, rancori profondi, malattie, sfruttamento, stress, senso di impotenza, viaggi infernali, umiliazioni, depressione, regole inaccettabili, fatica fisica ed esaurimento nervoso. I racconti delle sofferenze patite possono però diventare una lettura esilarante: ed è con questo spirito che abbiamo raccolto cento resoconti provenienti da cento posti di lavoro infernali. Per più di dieci anni la rivista “The Idler” ha dato asilo e ascolto a tutti i lavoratori insoddisfatti, disillusi e avviliti. […] Ne è venuta fuori una fotografia del Mondo Occidentale del Lavoro, e dell’enorme differenza che c’è tra ciò che i lavori promettono e quello che poi si rivelano essere davvero. Salari molto, molto bassi, stupidaggini aziendali, prodotti spazzatura, ambienti ostili e capi ottusi: ecco a voi i gloriosi frutti della Rivoluzione Industriale”.

E secondo me, anche se i lavori contenuti nella rubrica davano un assortimento quasi esotico o volevano comunque rappresentare dei picchi di eccezionalismo in quanto a insensatezza (e comunque parliamo di una società attraversata in maniera più lieve da traiettorie di terziarizzazione) — perché, come altro definire se non privo di senso un lavoro come l’allevatore di larve (n. 84) o come il copywriter di email spazzatura (n. 32) — potrebbero cmq essere indicativi di quelli di oggi.

Nell’antologia, poi, ogni lavoro viene spiegato e poi sintetizzato con delle emoticon, anche più di una: umiliante, alienante, inutile, immorale, pericoloso, disgustoso.

Sempre con questa volontà classificatoria e di analisi dei modi di dire intorno alle cose, mi viene da sottolineare una cosa prima di tutto. Non sono fatti solo di merda i lavori “di merda” — ci sono aggettivi diversi per segnalare aspetti diversi che non vanno bene. Forse quella di “lavoro di merda” è pure un’espressione il cui uso disinibito segnala la perdita del vocabolario, di presa sul mondo — la crisi del significato?

Perché la verità è che, così come si lascia sempre un lavoro, si parla sempre di un lavoro specifico e di condizioni specifiche quando si dice lavoro di merda. A volte è il contenuto del lavoro, a volte le condizioni in cui si è costretti a farlo (orari, colleghi, rapporti con i superiori, etc.), a volte episodi spiacevoli o gravi in un crescendo di disagio che ci ricorda come:

“Il rapporto di lavoro, soprattutto in un sistema di piccole imprese, costituisce anche una relazione tra persone, non è un rapporto sociale astratto con un’entità imprecisata come può accadere nelle grandi organizzazioni. Ed essendo una relazione è soggetta a tutte le difficoltà delle relazioni umane: incontrarsi, frequentarsi, sopportarsi non è scontato. E non c’è solo l’imprenditore che sceglie i dipendenti, c’è anche il dipendente che sceglie l’imprenditore, ed è un fatto estremamente positivo […]”
(Bruno Anastasia — intervista per “una città”).

Dunque, ci chiedevamo (io ma magari anche voi a un certo punto): c’è una soluzione allo smettere di pensare al proprio lavoro come un lavoro di merda?
Non possiamo continuare a genufletterci all’altare dell’analisi graeberiana, perché se c’è oggi una cosa sicura è che sono definibili di merda/lavori del cazzo una pletora di professioni svuotate dal dentro, una moltitudine che l’autore non prende in considerazione nella sua opera che rimane seminale. Staccarsi dai padri e dalle madri intellettuali è doloroso e richiede di mettere in campo dell’altro, forse di più coraggioso (ma non necessariamente): non siamo più nel contesto societario in cui la produzione di valore è una cosa assodata e chi sta fuori da questo perimetro sa per certo che il suo lavoro è utile o meno al progredire del consesso umano.

Se la ricetta non brevettabile per definire il lavoro di merda non è né la quantità di soldi né la passione né il contesto né i colleghi né il contenuto ma un mix multi-fattoriale e cangiante — cosa resta? In cosa possiamo sperare? Forse solo che la merda, soggettivamente intesa, non obnubili il sensorio più fondamentale.

“Ma il peggior attentato, quello che meriterebbe di essere assimilato al crimine contro lo Spirito […] è l’attentato contro l’attenzione dei lavoratori. Esso uccide la facoltà che nell’anima costituisce la radice stessa di ogni vocazione soprannaturale. La bassa specie di attenzione richiesta dal lavoro taylorizzato non è compatibile con nessun’altra, perché svuota l’anima di tutto quello che non sia la preoccupazione della velocità. Quel genere di lavoro non può essere trasfigurato, bisogna sopprimerlo. […] tutta la società deve essere anzitutto costruita in modo che il lavoro non tiri verso il basso quanti lo compiono. Non basta voler evitare loro delle sofferenze, bisognerebbe volere la loro gioia.”
Simone Weil, Diario di Fabbrica

E ricordarci che la gioia può e deve essere trovata anche (e soprattutto) fuori dalle otto-nove-dieci-ore. E se invece la si cerca dentro, ricordarsi che: some people end up loving what they do: finiscono con l’amare ciò che fanno. E non finiscono a fare il lavoro che pensano di amare: un ribaltamento niente male.

--

--