Non volete chiamarlo ‘patriarcato’? Allora chiamatelo Pino

silia gala
10 min readNov 29, 2023

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Fotogramma di “Vogliamo anche le rose” (A. Marazzi)

Il personale non è politico, il personale fa comodo per spiegarsi meglio

Lei arriva al bar, e io oltre a starla aspettando perché sono spesso in anticipo sono anche quella che, quando lei dice “Eh sai, un po’ gli scoccia che vada in vacanza con le amiche…”, si agita, è scissa tra la necessità di essere amica ma anche dire la sua, cambia posizione delle gambe per non avere un linguaggio corporeo né disteso né troppo accomodante. Quella a cui poi le cose vengono raccontate in sordina perché si agita troppo — anzi, peggio, si agita subito.
Oppure lui arriva a casa mia, ha portato del vino, non so come ma finiamo troppo presto ad ascoltare lui che dice come gli -ismi di nessuna risma lo appagano, che per lui maschilismo e femminismo sono esagerazioni lontane dalla vita delle persone, aliene al buon senso, siderali nel loro non accogliere la complessità. E io sono quella che cerca di fare ordine in questo caos comunicativo sciatto, io mi agito, e poi sono quella a cui le cose non vengono dette o si comincia a sorvolare perché mi agito troppo — anzi, peggio, mi agito subito.
Oppure tu che leggi sei quella cui hanno insegnato che se in una casa una delle due persone fa tutto il lavoro di cura e un’altra persona no, be’, che vuoi farci, non è un problema: è così, e non è manco una gran cosa. “C’è di peggio” ripetuto come un mantra pur di non chiamare le cose col loro nome. E il loro nome è quello che dite piano quando va bene, e vi viene da ridere nel pensarlo nel peggiore dei casi. Quel nome è Pino perché ‘patriarcato’ non funziona, è ostico, la punta della lingua non compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti.
Oppure sei tu che leggi sei quella che non ha gli strumenti teorici per dirla, questa ingiustizia, ma non sai che non è questione di cassetta degli attrezzi o libri letti: l’ingiustizia si avverte a pelle, fa colorare i pigmenti, accende le vene, occlude il respiro.
Oppure siamo noi che ci scambiamo i ruoli, di giorno in giorno, tra chi legge e chi viene letta, chi redige e chi scribacchia, noi leggiamo qua questa cosetta così pettinata, così razionale, e diciamo sì con la testa, sì è tutto così assolutamente giusto; solo che l’avverbio rimane lettera morta, perituro nero su bianco. Però domani è un altro giorno della nostra vita molto pragmatica, molto quotidiana e le cose messe in ordine con le parole accattivanti fanno il loro corso nelle orecchie e nello stomaco, e da digerite vengono dimenticate.

Quando si vuole ragionare, bisogna aspettare che gli avvoltoi abbiano concluso il loro giro sopra il ciclostilato. E se si vuole ragionare, non bisogna essere troppo affezionati alle proprie idee perché non importa da dove arrivi il testo o la voce: quello che importa è che molte persone, quante più possibili, continuino a tessere la trama invisibile del discorso pubblico su Pino. A me interessa semplicemente essere tra queste.

La scelta di iniziare a parlare di questo argomento dal minuscolo privato di due amiche che si vedono al bar non è una rivendicazione politica: è una scelta di comodo. È per un’immedesimazione più facile di altre, e ha a che fare con la vita di alcune persone che conosco. L’immedesimazione come vettore sacrosanto, innalzato sull’altare della comprensione, sì. Ma quando è richiesto tirar fuori l’artiglieria leggera, si deve fare anche questo.
D’altro canto, la persona che si agita sono io ma non sono solo io; la persona che, con le orecchie puntate sui racconti delle relazioni in cui un dettaglio buttato là non torna, si agita sono io ma non dovrei essere solo io, e difatti non lo sono.

Death is so newspapery

Nei giorni scorsi, quanto si è letto sul tema? Tanto, ma non troppo.
Quando si produce uno strappo così grande in seno a una società, non c’è la misura dell’esagerazione: c’è qualcosa di cui dobbiamo parlare, in modo strabordante, e dobbiamo farlo ora, domani, dopodomani — fino allo sfinimento. Dobbiamo stancarci, e dopo esserci stancate possiamo fare una piccola pausa e ricominciare il giorno dopo anche se in cuor nostro non vediamo l’ora di arrivare alla domenica del concetto in cui finalmente allungare le gambe e stenderci. Solo che a stancarci dovremmo essere di più in modo da redistribuire con percentuali pro capite l’onere.
Perché, vedete, stanchezza e agitazione vanno insieme. Se la mia amica con il fidanzato geloso — fidanzato che non sta dentro il patriarcato, no ma figuriamoci, è solo un fidanzato che ha un amico di nome Pino — comincia a condividere la fatica con me, io potrò essere meno agitata e stanca, allarmarmi meno, sentire che gli strappi della suddetta società stiamo perlomeno cercando di ricomporli insieme. Se il carico è condiviso, le relazioni possono essere migliori. Esattamente come succede dentro la vita domestica condivisa tra due persone: uno piega i calzini e l’altra i pantaloni, uno cucina e l’altra sta sul divano, una esce con le amiche e uno rimane a casa a giocare ai videogiochi. Non so quali e quanti altri esempi fare per far capire che, nei fatti, puntare alla parità è conveniente per ogni singola persona. Solo che in questo pezzo non stiamo parlando di lavoro domestico o lavoro di cura o dei 101 modi per essere un buon partner; stiamo provando a ragionare sul perché ‘patriarcato’ faccia paura e, collegato a questo tema ma in senso meno linguistico e più collegato alle nostre vite — pragmatiche, fatte di lavoro e di chiacchiere prima di andare a consumare la cena e poi andare a ricaricare le pile in posizione supina per le otto ore del giorno dopo che danno i soldi necessari per andare a fare quelle due chiacchiere al bar — , perché c’è questa grossa reticenza a mettere le parole strutturali al servizio delle cose che ci accadono.
Il fidanzato che non desidera che la propria compagna non esca con le sue amiche è patriarcato? Ma no, Silvia, stai esagerando. È solo che è fatto così, me lo sono presa così quando l’ho conosciuto e poi anche io se per tre sere di fila va a bere con gli amici e non mi calcola me la prendo, eh.
Per questo se non vi va di chiamarlo ‘patriarcato’, va bene pure ‘Pino’. Basta che in qualche modo lo chiamiate, basta che in qualche modo rintracciate che anche nel micro-comportamento di merda c’è nascosta in piena vista una montagna di letame. Voi potete non chiamarlo, noi continueremo a farlo perché vi vogliamo bene, ma sappiatelo: saremo sempre agitate, sempre più stanche, sempre meno spensierate. Quello è un lusso che non ci possiamo più permettere. E le non convertite devono solo pazientare.

La fine della spensieratezza

Nella primavera del 2021 ho seguito un corso online per diventare operatrice anti-violenza, finanziato dalla regione Umbria e in collaborazione con i Cav regionali, e una grossa parte della mia spensieratezza già intaccata se n’è andata per sempre. Spero siate tutti e tutte familiari con il concetto di spirale della violenza ma, se così non fosse, direi che è qualcosa che si può spiegare in modo veloce.

Questa è una ruota e non propriamente una spirale, lo so.

Provo a fare un esempio.
La spirale è una figura che parte piccola e poi si ingrandisce, giusto? L’amica al bar che dice che il fidanzato non è contento della sua vacanza amicale è una cosa piccola; lo stesso fidanzato che anni dopo è diventato marito e le impedisce proattivamente di uscire con le amiche è qualcosa che si è ingrandito ma che è sempre stato lì. Esagerata, vero? Non vorreste mai ritrovarvi a parlare con una persona che suggerisce che, se guardata in filigrana, la di lui preferenza un domani potrebbe diventare un divieto, vero? Perché la spensieratezza è l’ultima cosa cui uno vorrebbe rinunciare quando si tratta di relazioni amorose di varia natura: uno avrà pure il sacrosanto diritto, dopo che lavora e che paga le tasse, di viversi nel privato la propria storia d’amore/di sesso/di romanticismo senza che fastidiose sovrastrutture vengano a turbare l’intimità, il privato, la vita nostra? Mi dispiace ma no, non funziona così. Di privato, se esiste qualcosa, è qualcosa di così interiore che non si può ritrovare nelle relazioni in cui siamo costitutivamente esposto al grado minimo del pubblico, ovvero l’Altro. Il partner, la partner, i partner: quello che volete. Ma quello che succede tra voi e loro non è privato: è intimo, magari, ma ricade sempre e comunque in quelle fastidiose sovrastrutture che vorreste solo vi lasciassero in pace quando siete sul divano a farvi la seratina Netflix.
La spensieratezza, comunque, se ancora siete così fortunati ad averla — o così sprovveduti — è qualcosa che si abbandona per ricevere indietro un dono dal valore maggiorato: la consapevolezza. Che è pur sempre una fatica, quindi neanche quest’anno probabilmente molte persone chiederanno di poterla trovare impacchettata sotto l’albero di Natale.

Frequentare un corso per diventare operatrice anti-violenza — corso che, a onor del vero, non ho finito perché quando si è trattato di passare dalla parte delle lezioni teoriche al tirocinio dentro una struttura, io ho fatto quello che fanno le persone adulte: mi sono fatta di fumo perché a un certo punto per me era chiaro che fossi inadatta a gestire anche solo per pochi minuti la chiamata di una donna alle prese con una situazione di violenza domestica — toglie, come dicevamo, questa spensieratezza. E così rimarrà per sempre. Non si torna indietro dal femminismo, figuriamoci se si torna indietro dopo aver approfondito (per molte ore ogni fine settimana, nell’arco di diversi mesi) in quanti modi la violenza può estrinsecarsi nel mondo.
Ed è questa mancanza di spensieratezza che poi ti porti dietro al bar, o quando senti una battuta o quando di striscio senti una conversazione tra due estranei: manca la spensieratezza e subentra l’allarme continuo, odioso, martellante.
Non posso più guardare una coppia in strada che magari ha un alterco dai toni un po’ accesi senza sentirmi in apprensione e guardare qualche secondo, con discrezione, che tutto sia ok.
Non posso più far finta che alcune cose mi facciano ridere — e qua spieghiamoci bene: non siamo delle idiote che non sanno riconoscere i codici linguistici e i contesti in cui le battute vengono fatte. Non è che sto dicendo che se sento la parola “troia” salto su dalla sedia e inizio a urlare. Perché se ancora siamo a questo livello di comprensione della cosa, siamo fritti. Sto però dicendo che un amico che definisce la nuova barista di un posto “carne fresca” non mi farà mai più ridere e anzi mi fa venir voglia di alzare un sopracciglio, rimbrottare bonariamente, far capire che esistono molti altri modi di risultare simpatici e che esplorarli non comporta la perdita della propria identità. Lungi dall’essere una società in cui non si può più dire niente, io direi che si può ancora dire così tanto che ’ste sopracciglia che volevano solo essere le guardiane delle palpebre, devono ancora alzarsi giorno dopo giorno per segnalare che qualcosa stona.
Non posso più fare orecchie da mercante se un’amica mi racconta di alcuni atteggiamenti della/del partner che trovo non dico problematici ma sicuramente da indagare.
E qua capiamoci: “non posso” non indica un bislacco kantiano senso del dovere, ma un’impossibilità fisica. Sento il corpo che reagisce, sento il nodo alla gola, sento la faccia rossa e so che non riuscirò a stare zitta. Non c’è un cazzo di eroico né un cazzo di bello a essere così, questo sia chiaro. E, di nuovo: parlo di me ma non solo — almeno spero.

Cosa fare? Smettere di scrivere, tipo

Agitate, stanche, non spensierate: le persone che approvano e diffondono l’uso della P-word sono così. D’altronde, quelle che evitano e che al massimo parlano di ‘Pino’ hanno la pelle più liscia. Se tra le due persone sedute insieme a prendere una cosa da bere, voi siete quella con le rughe e che dice ‘patriarcato’ a ogni piè sospinto — l e g i t t i m a m e n t e — dovete sapere che la fatica di parlare ai non convertiti non finirà mai; c’è un paradiso per voi, ma non è in questo mondo.
Ma voi mi interessate di meno, mi siete sempre interessate di meno. Per tutto questo tempo? Sì, per tutto questo tempo.
Questo testo ha senso di esistere solo se almeno una — e dico una, non ho smanie di grandezza — di quelle ragazze, donne, esseri umani femminili che, nel proprio presente o nel proprio passato hanno dovuto fronteggiare comportamenti abusanti e che nel momento in cui succedeva non aveva le parole giuste, ha letto fin qua e si è ricreduta. Ha letto fin qua e quella caratteristica un po’ buffa e un po’ del suo partner ora sembra meno buffa; se quelle battute del collega adesso sembrano un po’ meno battute; se quella spiegazione accompagnata da un’aria di superiorità sembra un po’ meno illuminante. Se questo testo non serve nemmeno a una di queste cose, è un testo inutile. Ed è possibile che sia così. Ma è anche vero che convertire i già convertiti non è divertente né serve a fare nessun passetto in più.
Io, da parte mia, dico solo che da oggi in poi l’agitazione e la quantità di volte in cui si tireranno in ballo certi argomenti non potranno solo che essere più numerose, quindi se pensate che siamo state esagerate finora, trovatevi un altro pianeta in cui vivere.
Perché, dopo Giulia Cecchettin, al prossimo che mi dice che esagero, io non voglio neanche più rispondere, non intendo più argomentare: voglio rimanere zitta e aspettare che si senta così in imbarazzo da scusarsi.
E finalmente coronerò il sogno patriarcale per antonomasia: sarò una donna brava e zitta.

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