pagare o non pagare? boh cioè dipende

silia gala
6 min readJan 30, 2024

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“Pagare o non pagare?”: questo è il problema.

Solo che il dilemma così posto suggerisce con fin troppa facilità una questione morale legata al denaro: chi è che si chiede se pagare o non pagare, d’altronde? Chi in un certo momento della propria vita ha dovuto interrogarsi sul poterlo fare. Sembra che siamo nella situazione in cui siamo costretti a una scelta: messa così, è solo e per forza di cose una scelta individuale — eppure non lo è. Ma “pagare o non pagare” rischia di diventare un falso problema se prima non affrontiamo la stessa condizione possibilitante del quesito: “essere pagati o non essere pagati?”.
Nel breve testo di Walter Siti quella che chiamerei un’“atmosfera individualizzante” aleggia un po’ ovunque e moralizza un discorso che è più socio-politico che non personale-psicologistico, e questo è uno dei problemi. Però abbiamo tempo per arrivare a questo; andiamo piano, dall’inizio.

Non casualmente nelle prime pagine di “Pagare o non pagare?” è chiaro che lo sforzo di affondare nell’attualità si scontra con la cifra stilistica dell’autore, del suo stesso modo di venire a capo delle cose. Un modo che passa attraverso la prima persona, trafiggendo la superficie della supposta neutralità della terza persona.

Perché, se l’idea al centro della sua produzione è sempre stata «Credo invece che la letteratura, come la intendo io, sia un modo di conoscere la realtà non surrogabile da altri tipi di conoscenza […]», nel libercolo su uso e dimensione simbolica del denaro, Siti esplicita la sua domanda di fondo in modo ancora più circoscritto: «Può l’autobiografia funzionare anche come autoanalisi di un ceto?».
Come scrive Davide Luglio: «In Pagare o non pagare, l’allusione all’autobiografia come autoanalisi di un ceto non può non costituire un rimando al resto dell’opera di Siti o meglio, come cercheremo di mostrare, alla poetica che vi è sottesa. Tale poetica, spiega Siti in un altro saggio pubblicato precedentemente dallo stesso editore, Il realismo è l’impossibile, è una particolare forma di realismo che consiste nel sospendere o battere in breccia quegli stereotipi che inevitabilmente fanno schermo alla realtà».
Se in quello stesso libro Siti descrive il realismo come «l’anti-abitudine», è dunque sensato procedere nel senso di usare questa lente critica per leggere e commentare i suoi testi — almeno sembrerebbe.

Il libro si apre col binomio mobilità/tradimento di classe — si è più figli dei momenti storici che non dei propri genitori –, inteso come elemento dirimente per l’ingresso nell’età adulta della generazione cui appartiene Siti (nato nel 1947). Una gran quantità di individui che spera di saltare una casella dalla sua condizione di partenza (Siti parla di un «ascensore sociale senza intoppi»): sullo sfondo, gli anni Settanta e gli anni Ottanta come periodo delle promesse economico-emancipatorie, della linearità della gavetta, della limpidezza dell’assetto meritocratico.
Siti rilegge il suo accedere al mondo adulto alla luce del «piacere di pagare», un meccanismo che olia così bene le partenze diseguali tale da mimetizzare i propri effetti («[…] noi appena usciti dall’ascensore potevamo essere scambiati per coloro che ai piani alti ci abitavano da sempre»).

Se il denaro è mezzo — materiale e insieme astratto — per raggiungere i fini più disparati e se nel suo uso entrano in ballo variabili oggettive come soggettive, è interessante notare come per Siti il dato di realtà più interessante sia non una vera e propria “mutazione antropologica” à la Pasolini ma qualcosa di ancora più interiore e non tangibile.
Qualcosa di intimista: «Ma forse per loro, i nativi digitali e “nativi finanziari” (nativi precari, direi), per quelli che allo spirare del Glass-Steagall Act avevano meno di dieci anni, i cresciuti “sub specie technologiae”, forse per loro sono proprio mutati i parametri mentali: pagare (ed essere pagati) è diventato più aleatorio, lavorare per comprare è più una teoria che un fatto, il rapporto stesso con l’economico è diventato più rabbioso, indolente e disperato al medesimo tempo».
Non so se esista una scuola di critica letteraria che incoraggia a zoomare così tanto un ambiente testuale fino a far collassare la disamina dello stesso a tre righe isolate ma mi sembrano comunque affermazioni centrali insieme ad alcune altre disseminate verso l’inizio e la fine del libricino. Forse solo i critici di Yale avrebbero potuto caldeggiare questa postura. Però credo anche che i testi abbiano punti di fuga e spie, e che in entrambi i casi è importante rilevarli.
Tutto mi sembra sintomo plastico dell’“atmosfera individualizzante” di cui sopra, a partire dai cosiddetti “parametri mentali”: cosa sono e come fanno a cambiare? E se cambiano nelle teste di molti, siamo noi in un mondo in cui, magicamente, accadono fenomeni telepatici di massa? O magari i parametri mentali cambiano in risposta a parametri oggettivi, materiali, economici? La appoggio qui come domanda inevasa, ma di cui credo di sapere la risposta.

Il rimando continuo — e abbastanza poco marxista — all’individuo impreziosisce il resto del ragionamento: «Forse per loro pagare (ed essere pagati) è diventato più aleatorio».
Per ‘loro’? Siamo noi ‘loro’? Sono i giovani? Forse sì: «In mezzo, i giovani di una sempre più evanescente classe media, coccolati e spersi, incapaci di non cedere alle tentazioni di un’abbondanza fittizia […], accumulano “crediti” e master; […] si rassegnano a lavorare gratis e a spigolare tra tutte le offerte della “gratis economy”, come veri e propri mendicanti digitali […]». D’altro canto o cerchiamo cose gratis, o non lavoriamo stazionando malmostosi nelle case dei nostri genitori, o al limite : «Se della produzione si occupano i robot, e per i lavori di bassa manovalanza ci sono gli stranieri che costano meno delle macchine, ai nostri giovani “in parcheggio” non resta che l’organizzazione del tempo libero […]».
“I giovani”: come fossero — come fossimo — una classe sociale, dimenticando che per quanto le fasce siano collassate le une sulle altre e la classe media sia da decenni in via di proletarizzazione, mettere insieme i giovani non mi pare acutissimo da parte di un autore che non si è mai dimostrato così fiacco come in questa pubblicazione.
E, soprattutto, non va nella direzione di un’autoanalisi. Un po’ perché — pare una banalità dirlo — ma esistono giovani e giovani; e in secondo luogo perché l’economia freemium non è univocamente pensata per i giovani e da loro utilizzata.
In ultimo, mi interessa molto anche il passaggio «il rapporto stesso con l’economico è diventato più rabbioso, indolente e disperato al medesimo tempo»: rapporto che, nel suo cambiamento, è conseguenza dei mutati parametri mentali, sempre loro. Dov’è la realtà del fuori, però? Dov’è lo sforzo di un realismo che — come preconizzava W.S. dieci anni fa — agisca da “anti-abitudine”?

Ripercorrendo il pensiero di Siti senza entrare in contrasto, Matteo Moca su minimaetmoralia scrive che: «La dignità che è indispensabile per un uomo in formazione si cerca altrove che nel lavoro; la catena socialmente consapevole che cinquant’anni fa appariva infrangibile, lavorare → essere pagati → pagare → comprare, è evaporata in una nebbia di delusioni e speranze in cui sembra che il denaro abbia perso la propria funzione di perno, in quanto collegato al lavoro».

Certo, molto — se non tutto — ha contribuito a smaterializzare il denaro, ma l’identificazione e definizione del sé attraverso il lavoro è salva e gode di ottima salute. Solo che è diventata un’uguaglianza che non si sviluppa per gradi ma associa “lavorare come x” a “essere x”.
Insomma, se la domanda retorica ma gravitante è «Può l’autobiografia funzionare anche come autoanalisi di un ceto?», mi pare che possiamo serenamente rispondere che sì, può funzionare. E che no, in questo caso non è successo.
In chiusura, la beffa magistrale: Siti decide di concludere con un’auto-assoluzione consolatoria in una riga — “l’unica irreparabile rovina sono io”. E io che ho passato le ultime ottomila battute ad argomentare e che non pensavo mi sarei mai affidata a una frase così volgare, mentre termino queste considerazioni tinteggiate di polemica mi viene solo da scrivere: “Ok boomer”.

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