Per il famoso fenomeno della rifrazione

silia gala
22 min readJun 30, 2023

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«Allora, che ne pensi?»

Lo guarda e lo odia; odia il suo pallore, conseguenza dell’estate passata tumulato in casa a cercare di partorire cose più grandi di quanto la minuscola apertura della sua testolina permetta; odia la smorfia dell’attesa di un suo giudizio; odia profondamente questo momento, che la sua mente sta suo malgrado registrando. Lo guarda; lo odia davvero, non esistono eufemismi per questo sentimento. Ma non può in alcun modo dirglielo.
In più, si è trattato di un cadavere esposto in una piazza, ammaccato da uno che ne ha poi estratto un composto con della farina — cosa deve pensarne? Non era mica una performance da giudicare. Dovrebbe scansare l’umana pietà per la morte del suo amico e fare spazio a considerazioni voyeuristiche?

«Secondo me era davvero inaspettato. Sembrava l’allegoria profana di un intendimento cristologico della morte…»; il ragazzo tira fuori il tabacco per rollare una sigaretta e sorride con l’aria di uno che è stato baciato dalla dea dell’ispirazione. Gero non ride; si sente lontano anni luce, scagliato via da quella roba là, il bar le chiacchiere la bevutina. Sente da remoto che l’altro sta affabulando un conoscente che ha avuto la brutta idea di chiedergli come proceda la sua arte. Il ragazzo non fa in tempo a ingollare l’ultima goccia di vino bianco che si è messo a spiegare perché e per come ora la sua arte materica è pronta per un’esposizione al pubblico. Mischiano stronzate con la visione di un corpo tumefatto e ridotto all’osso mentre ingurgitano liquidi rassicuranti al bar di prima mattina. Gero fa molta difficoltà a sostenere una cosa simile, ma non vuole tornare nella solitudine dell’appartamento.

«Ho avuto velleità da cretinetto, non faccio fatica ad ammetterlo; e poi un giorno stavo letteralmente impazzendo nel nonsense snervante di questo mio non-creare e ho cominciato a far girare lo sguardo intorno e a cercare di dipingere quello che vedevo. Ho fatto la cosa più vecchia del mondo: ho preso il materiale a disposizione e l’ho plasmato.»

C’è un bambinetto dispettoso dentro di lui che ride sornione fino alle lacrime, ma dal fuori Gero ha le sembianze di un serioso quarantenne con gli occhiali e deve rispettarle, le sembianze, se no un giorno anche questi pivelli potrebbero abbandonarlo. E Dio solo gli è testimone nel capire quanto invece gli servano.

«Beh, sicuramente con questa scelta è venuto un po’ meno il pathos, però avrai avuto le tue buone ragioni… È una scelta più contestuale — di più sicuro approdo — è comprensibile che tu…».

«Ah no, no, caro mio, semplice un paio di cavoli».

È successo: Gero l’ha ferito nel suo piccolo orgoglio di creatore incoerente. Un altro passo falso e sarà per sempre sulla lista nera di gente a cui non chiedere più consigli per la carriera.

«Ti dirò anzi che è stato traumatico vedermi abbandonare il grande progetto per queste… briciole, non è stato semplice capire di non essere tagliato per la cosa più possente, più muscolare! Ma entrando nel merito, proprio. Che te ne pare, eh?».

La risposta che vorrebbe dare gli muore in gola quando si para davanti a loro Xaze, amico del creatore, davanti al quale non può esprimersi come il camionista seppellito in lui vorrebbe: riprende il controllo e aspetta che l’altro si introduca. Sa solo che è incastrato e si prospetta un’altra mezzora di inutili tiritere: quello che è appena arrivato al tavolo è uno che gioca a creare artistici collage di ritagli del giornale, glitter e piume di canarini morti, e non riesce quasi mai a terminare una delle sue opere perché si è accorto che “la storia va avanti tutti i giorni” e gli sembra ingiusto portare a compimento un’opera. La soluzione più congrua che ha trovato è aspettare un giorno in cui globalmente non accada nulla di eclatante e chiudere con una sola passata di ceralacca tutti i collage. L’avesse conosciuto prima, Gero gli avrebbe consigliato di studiare una lingua morta, il greco o il latino. Così, tanto per non avere troppe sorprese nella vita.

Invece resta seduto a gambe conserte e guarda con gentilezza questo membro eminente del regno degli Artropodi: guarda e odia anche lui — ma tant’è, è invischiato in modo inespugnabile, l’unica cosa da fare è rimanere e prendere una scusa al più presto. È che continua a chiedere a se stesso, dubitando del suo istinto di sopravvivenza, come faccia a trovarsi così spesso in situazioni dalle quali non vede l’ora di fuggire. Sarà che passare il tempo ogni due-tre giorni con questi ragazzetti non gli fa poi così male, dopotutto: cuccioli che ancora non hanno ancora preso il freddo fuori dalla porta del loro onanismo intellettualoide, e sono persino un po’ teneri a vedersi. Un giorno di questi è il caso di fargli vedere un paio di cosette, però. Magari in giornata.

«Ciao a tutti e due: posso sedermi, vero?»

L’altro non lo sta davvero guardando per quel che è: lo rimira e assapora la possibilità di sviscerare in ogni particolare la sua opera appena sfornata, di tormentarlo con la meticolosità della scelta operata, di avvicinarlo al suo personalissimo, iper-artistico sentire di creatore-cucciolo che ancora non si regge da solo sulle proprie zampe fragili. «Xaze! Ma certo, ma certo, accomodati, non devi nemmeno chiedere… Allora, com’è che va?»

Il pallidino non vede né luce solare né gente da almeno cinque giorni, e l’eventualità della doccia è stata abbandonata anche prima, si direbbe dal suo odore. Gero e tutte le altre personalità sepolte dentro di lui avvertono la necessità di uscire di scena: ha bisogno di girovagare illeso per la città, in un agosto caratterizzato da un’afosità che dà alla testa. Saluta svagato e si alza, aggiungendo che ripasserà dopo. Gli rispondono, presi alla sprovvista, che probabilmente saranno ancora lì.

Gero è stato camionista per professione, bambino dispettoso nell’infanzia e l’attitudine ossessivo-compulsiva verso le cose che lo circondano ricorda quella di una donna invecchiata in anticipo attorno al gelo della propria vita. Le estati che la sua famiglia passava dagli zii gli rivengono alla mente come esplosioni di quella vita che teneva stretta dentro il cappotto durante l’inverno, pungente ma aleatoria.

Dalla fine delle lezioni passava ogni singolo momento in casa, accanto al telefono, aspettando che chiamassero gli zii e che invitassero lui e sua sorella Teresa per tutto il periodo della pausa estiva. La chiamata tanto agognata era arrivata fino all’estate dei suoi quindici anni, ma non erano riusciti a raggiungerli al casolare perché Teresa era bloccata a letto da un male libresco, quel tipo di dolori e sofferenze che assalgono le donne ricche nei romanzi di fine ottocento: pomeriggi a letto con emicranie fortissime mentre fuori dalla porta la governante di colore chiede se può essere d’aiuto alla signora e se può portarle acqua e zucchero, o una pezzola pulita, o fare qualsiasi altra cosa affinché la signora si ristabilisca in fretta.

La connessione privilegiata e intima con gli zii era finita sempre in quella maledetta estate e non si ripristinò più; forse loro stavano diventando vecchi — o forse erano loro due che stavano cominciando a incarnare il prototipo di adolescente problematico –fatto sta che li rivide solo quando erano già freddi e orizzontali.

Continua a camminare sulla litoranea, deserta sotto la canicola, e continua a ricordare.

Quando era un guitto in miniatura, per esempio, non dava requie a nessuno; i genitori, la sorella, gli animali domestici, tutti divenivano allo stesso modo vittime delle sue incalzanti monellate. Non risparmiava nemmeno gli zii che lo adoravano — o meglio, che lo avevano adorato — pace all’anima loro ormai involata. Con l’adolescenza, invece, tutto il traboccare di esuberanza si era incanalato in vaga mestizia: non sapeva che farsene del corpo in trasformazione e della mente che sentiva sempre più fiacca, sempre meno concentrata sugli obiettivi standard che ogni brillante di rampollo di famiglia deve affrontare, come un videogioco a ostacoli crescenti. Finire il liceo, iscriversi a una facoltà pratica, migrare verso una buona scrivania. Trovare una ragazza, farne una donna, spremere fuori uno o due figli. Meglio se maschio e femmina, meglio se vicini di età, diciamo al massimo tre anni di distanza.

Aveva preso in considerazione l’università solo perché gli sarebbe piaciuto studiare ma non specializzarsi in qualcosa: non aveva mai mostrato un grande talento scolastico — fatta eccezione per la mole di libri che ogni settimana leggeva. Gli piaceva recitare ma non aveva la minima intenzione di andarsi a rinchiudere dentro un’accademia — tutto il contrario di Elias, il suo unico amico, il suo amico migliore, che soffriva come un cane nel vedere quanto Gero perlopiù improvvisasse il suo talento, mentre a lui restava solo l’opzione di disciplinarsi tramite sessioni serrate di esercizi. Sua sorella Teresa, che aveva qualche risparmio da parte, aveva voluto investire come impresaria sul loro duo teatrale. A Elias non era stato detto nulla, per non metterlo in imbarazzo; e infatti quando era venuto a sapere quali fossero le dinamiche dietro la produzione dello spettacolo, si allontanò in modo irreparabile dalla loro comune carriera.

L’ultima loro volta insieme sul palco era stato nel settembre di quell’anno davvero difficile, che Gero concluse con il botto. I genitori rimasero sbigottiti quando il figlio chiese loro i soldi per sostenere l’esame per la patente CQC, quella del camionista: ma perché, perché?, — guance rigate di nero, occhiate stizzite, voci scomposte, gomiti trattenuti — perché proprio lui, lui così promettente, lui così dotato? Perché buttare via tutto? Gero aveva accolto con un sorriso misericordioso le scenate della madre, e le aveva fatto una carezza: non aveva mai promesso niente a nessuno, non aveva mai parlato di carriera, non aveva mai tracciato il margine per essere promettente. Non desiderava niente in particolare, né farsi onore nel mondo né avere riconoscimenti o targhe, né applausi: voleva sparire per lasciare che si occupassero solamente della sorella, i cui malanni non stavano andando nella direzione di diminuire. I genitori rimanevano preoccupati da questa insistenza su malanni che per loro, dopotutto, erano frutto di abulica immaginazione.

Appena ottenuta la patente si era messo in contatto con un paio di ditte che facevano tratte internazionali e il lavoro era iniziato qualche giorno dopo: aveva salutato con gentilezza i suoi e poi decise che sarebbe andato da Teresa ad annunciarle la partenza — almeno questo glielo doveva. Non l’aveva trovata sola: c’era il suo fidanzato di allora — ad oggi marito dimenticato — , il secchione vestito di tweed che soleva tenerle la mano ogni volta che nuove emicranie venivano a rovistarle nelle tempie. Lei immensa, grassa e perduta; lui raccapricciante nella sua mediocrità, il viso squittente, la vita mediocre da sottoscarpa se non fosse per la complicata situazione psicologica di Teresa.

Gero lo odiava istintivamente dal primo incontro, ma quel giorno aveva avuto una strana reazione: iniziò a immaginare come sarebbe stato scoparsi quell’omettino sopra la pantagruelica pancia della sorella; o come sarebbe stato fare una cosa a tre, lui che lo metteva a lei e l’altro che metteva il suo in Gero mentre quest’ultimo scoppiava sulla faccia di Teresa; o come sarebbe stato altresì divertente guardarli fare, immaginando le interazioni di quei due corpi così poco complementari. O come sarebbe stato giusto che il futuro cognato gli chiedesse pietà mentre lui gli schiacciava i connotati con gli stivali. Le immagini si tradussero in un’erezione che gli sarebbe piaciuto sventolare baldanzosamente in giro per la stanza, se non fosse stato oltremodo sconveniente.

Nel frattempo sentiva i suoi bisticciare in un’altra stanza; sua madre piangeva disperandosi che stava succedendo ancora, che aveva paura che Gero potesse star male lontano da casa, e che sarebbe successo di sicuro se poteva contare solo sulle sue esigue forze mentali, lontano dalla famiglia e dall’aria di casa…

Si era scrollato di dosso il piagnisteo della madre per entrare a salutare sua sorella, che teneva gli occhi chiusi per capriccio: aveva salutato entrambi, ricordando loro che si sarebbe aspettato di vederli sposati al suo ritorno, poi gli aveva fatto credere di aver lasciato la casa ma, acquattato dietro la porta, aveva cominciato a muovere freneticamente la mano su e giù sull’erezione ancora stabile. Venne su un vaso di fiori accanto all’ingresso e fischiettò felice, chiudendosi la porta dietro.

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Il viaggio come crescita, come scoperta di sé; l’importante non è arrivare ma il percorso; chi viaggia diventa più interessante, chi viaggia vede le cose in ottica relativa e vive con maggiore consapevolezza; viaggiare alimenta l’anima; e così via.

Gero aveva viaggiato tanto ma non gli era mai capitata nessuna delle meravigliose che sembra capitino a tutti quelli che rinchiudono tutta la loro vita in pochi bagagli e partono. Era rimasta la stessa persona — o sicuramente non migliore, ecco: se c’erano differenze, aveva smesso di guardarle e pensarle importanti. Viveva scivolando sui giorni, tentando di non fermarli mai.

Scoprì che gli piaceva adescare donne conosciute nei locali solo per trasportarle di peso in camera e abbassarsi pantaloni e boxer mentre recitava in rima l’albo delle sue preoccupazioni. Nudo e splendente in mezzo alla stanza, forzava la cortigiana di turno ad ascoltare lunghi, insormontabili monologhi su quanto la sua vita fosse tormentata; poi solitamente si divertiva a mostrare loro una foto di Teresa bambina — intatta, intoccata, ancora non sgualcita dal corso degli eventi e dalla promiscuità — e le obbligava a lodare la bellezza della sorella. Una di loro, la creatura più superficiale che Gero avesse mai incontrato, aveva detto preoccupata: «Oh mio dio, ma è una bambola».

Il viaggio alimenta l’anima.
Una tara mentale, una corazza con cui partire e non una considerazione cui arrivare.

Gli pareva che viaggiare gli avesse più che altro insegnato dove fossero i depositi in cui scaricare e riprendere merce, e dove fossero invece i posti giusti in cui cercare un po’ di morbida serenità: ma con i suoi problemi era partito e a causa degli stessi era tornato, dieci anni dopo. Cinque anni fa.

Una volta tornato in città, i genitori s’erano così invecchiati che gli provocarono una pena indicibile; d’ora in poi sarebbe stato lui con loro, ma prima di tutto doveva premurarsi che Teresa stesse bene. Loro non dissero nulla di lei, ma gli confessarono che in dieci anni si era perso troppe cose e che, forse, non sarebbe mai riuscito a recuperare i fili delle vicende familiari.

Teresa, finalmente andata in sposa al tizio in tweed, da qualche anno ormai aveva un malanno perenne, che non accennava a diminuire di intensità e che la costringeva a passare dal letto al divano e viceversa. Non si era più laureata, e non aveva voluto che il marito vivesse con lei nell’appartamento di famiglia. Gero non capiva perché, ma i genitori gli davano le informazioni a singhiozzo e per la maggior parte aveva dovuto lui tirargli fuori le parole di bocca. Per sapere la verità doveva correre da lei personalmente, non aveva scelta.

L’appartamento era in completo abbandono ma non importava: non gli tornava il fiato per l’emozione. Aprì di un colpo la porta della camera di lei e la vide, infine. Nonostante pesasse già quelli che potevano sembrare centoventi chili, Gero la strinse forte a sé, la prese con vigore e fecero l’amore fino a che non gocciolarono sulle lenzuola tutta la mancanza che avevano avuto l’una dell’altro. Sapeva che con le altre non era andata mai bene perché il pensiero della sorella — sposata posseduta ritagliata –gli creava violente scariche di pianto. Le belle, frivole cortigiane non potevano che prenderla come ansia da prestazione, e ne approfittavano per sgattaiolare via. Gli era passato per la testa che quello che avevano fatto poteva essere lontanamente ritenuto incestuoso, ma aveva continuato a sfamare la libido di entrambi pensando che si sarebbe sentito in colpa dopo. Dopo, ancora qualche giorno, qualche settimana ancora. Non era mai successo.

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La sua psichiatra dice che il senso di colpa prima o poi arriverà, ma ormai sono cinque anni che passa un pomeriggio a settimana nello studio di lei a parlare, e si sente lontano, lontanissimo da una qualunque manifestazione di rimorso. La terapia dopo quell’episodio è stata un’idea di Teresa o un’idea sua? Non se lo ricorda.

Un giorno, forse per mettergli qualche strana pulce nell’orecchio, Teresa si è messa a discettare sulla diffrazione, un fenomeno che caratterizza le onde che, incontrando un ostacolo sulla loro traiettoria, deviano quest’ultima e si ripartiscono al di là dell’ostacolo. Lo ha guardato e gli ha consigliato di applicare questo concetto alle considerazioni sul loro rapporto. Le ha riso in faccia e non l’ha mai fatto: non ha bisogno di questi mezzucci, ha solo un dannato bisogno di sapere che lei lo ama come lui ama lei.

In alcune occasioni ha provato di nuovo a entrare dalla sua porta, ma lei è stata molto ferma nei suoi ‘no’, e anche sgradevolmente materna col suo ritornello: dovresti farti vedere, sei ancora in tempo, risolvila ora che puoi.

La psichiatra gli dice che «è malato ma fa progressi, dunque deve ancora fare tanti piccoli passi che la porteranno a scacciare via quelle proiezioni e tornare a essere felice». La psichiatra non crede che dentro Gero ci siano un bambino dispettoso, un camionista perverso e una rigida matrona che intralciano la sua vita quotidiana:

«Non deve pensare ai rami secchi che sono da potare ma al tronco della pianta, forte, stabile, un tronco che deve fare tanti piccoli passi che lo renderanno un bravo tronco felice».

La sua psichiatra ha paura e gli prescrive delle medicine, che lui non prende: ha solo tanta voglia di rigarle la macchina.

La psichiatra dice di credergli quando lui cita i problemi che ha nel capire il suo vero stesso, dal momento che spesso viene annientato dalle 3 voci che ha in testa. No, nemmeno voci, lei li chiama ‘schemi d’azione’ e sembrano alternarsi: la psichiatra è convinta che da anni, però, quello preponderante sia quello femminile. È chiaro, si capisce — in una famiglia così e cosà, con i riferimenti femminili sballati, i ricoveri casalinghi, e tutto il resto.

A ogni seduta gli ripete che fintantoché lui riesce a tenere sotto controllo questa faccenda degli schemi d’azione, può vivere sereno: ha quarantun anni, è tuttora bello, in salute fisica, i genitori gli hanno lasciato una discreta somma con cui vivere bene, e un appartamento. Certo, la mente è importante, la psiche può fottere ogni cosa, ma intanto deve accontentarsi di vedere le piccole e grandi cose buone che ha. Secondo la psichiatra, deve agire come se fosse figlio unico perché «Gero, il suo attaccamento a Teresa è morboso, paranoide e lievemente preoccupante».

La psichiatra dice che la sua considerazione di Teresa è distorta e che dovrebbe riordinare le sue priorità. La psichiatra dice che l’incesto tra loro due non esiste, è più verosimile vederlo come un atto onanistico, ecco.

Quando la psichiatra dice così, Gero immagina di portarla in camera a farla arrossire davanti al suo scultoreo membro mentre le mostra la foto di Teresa che sorride — piccola, candida, vestitino con le margherite. Invece la ringrazia cortesemente e lascia due banconote sulla scrivania.[UdMO1]

È passata più di un’ora, forse due, da quando ha lasciato i due al bar a lisciarsi il pelo a vicenda e, in preda a un inspiegabile moto di generosità, torna da loro per impartire qualche dritta sull’ispirazione e sulla materia da plasmare eccetera, e far veder loro che quello che lo scenografico auto-omicidio del suo amico è solo un evento isolato, mentre un vero teatrante — uno che non abbandona il ruolo davanti a nulla — porta avanti i suoi personaggi fino all’ultimo, fino alle estreme conseguenze… Uno come lui. E come Teresa, ovviamente. Deve portarli a casa loro.

Li avvista da lontano, fermi allo stesso tavolino di prima, che si danno arie da vissuti sperando di intercettare lo sguardo di qualche coppia di ragazze sole. Vociano e gesticolano mentre cercano di non farsi scappare nemmeno un bel culo nel raggio di cento metri. Fanno tenerezza: in fondo sono cuccioli da svezzare.

«Signori!»: si introduce con cordialità perché vuole subito trascinarli a casa, e non dar loro la possibilità di restare in quel maledetto bar.

«Immagino abbiate parlato di scrivere e pennelli e scultura per tutto questo tempo, mentre io andavo in giro a schiarirmi le idee su come aiutarvi».

È un po’ teatrale, ma ok va bene, e la voce quasi non gli regge, e tuttavia l’ha già fatto tante volte: deve solo attirarli nella tana del lupo come faceva con le ragazze conosciute nelle ore notturne, in quei paesi dai nomi zeppi di consonanti velari e dentali.

I due gli danno un’occhiata come a soppesare l’avventura che gli sta proponendo: eppure sono artisti anche loro, ognuno con le proprie fonti d’informazione, ognuno con il proprio metodo. Il primo fa spallucce — ma l’altro, Xaze, è così inguaiato con le muse che accetterebbe di tutto. Si alzano e si dicono disposti a seguirlo; Gero non esita nemmeno un attimo. Andare all’appartamento, veloci veloci.

Nel tragitto si sente dire sovrappensiero cose come: «L’ispirazione è fatta inizialmente di una valanga creativa che non ti lascia altra scelta se non quella di accettare l’incarico, diciamo. Ma in un secondo momento, quello che realmente conta sono i particolari, le limature; una storia è credibile solo quando, davanti all’evidenza che si tratta di una finzione, di un romanzo, di una storia appunto, davvero non ci sarebbe più nessun motivo di crederci eppure non riesci a convincerti… che non sia vera. Voglio dire, tutte le grandi finzioni aspirano a essere prese per vero e se c’è un numero abbastanza consistente di persone pronte a non voler abbandonare un libro, un quadro, uno spettacolo teatrale perché gli sembra troppo reale, allora l’artista ha vinto! Ha confuso e ingannato, ma ha vinto!».

Nota che questi discorsi cominciano ad annoiarli, che pure continuano a seguirlo sulle scale per arrivare all’appartamento e soddisfare la curiosità; in qualche occasione Gero ha parlato loro della sorella, dello splendido, intimo legame che li avvince, e che — poverina — è ormai da anni in quell’appartamento lontano dal marito perché il suo sistema nervoso è in continua capitolazione davanti alle difficoltà che ogni vita normale comporta.

Li vede di sguincio scambiarsi occhiate di intesa ma loro lo lasciano parlare, tanto per fare, ché a loro non costa nulla fare un segno d’assenso ogni tanto.

«Voglio dire, se no dove sarebbe il senso della letteratura, dell’arte visiva? Lo diceva anche un altro tale che il primo evento di letteratura può essere considerato…».

Francesco e Filippo cominciano ad abituare gli occhi al buio imperante del salotto per cercare di capire se la sorella sia lì, per presentarsi e salutarla.

«…quando qualcuno gridò “Al lupo, al lupo!” ma in realtà…».

Fanno fatica a vedere con chiarezza, ma una cosa è certa: la sorella non è in quella stanza.

«… in realtà non c’era nessun lupo! Capito? Ma tutti ci credettero e quello fu il primo grande scrittore, così! Geniale, no, come spiegazione?»

I due amici vorrebbero solo che Gero la smettesse di parlare e vorrebbero chiedere di farsi presentare, perché hanno una gran paura di apparire scortesi con la padrona di casa. Si fermano sull’uscio in attesa mentre lui va avanti nell’appartamento accendendo tutte le luci per illuminare il soggiorno.

«Per esempio, che cosa ne pensereste se la vostra fidanzata vi raccontasse un sacco di bugie ma molto veritiere? Potreste essere arrabbiati o potreste avere un altro tipo di reazione: essere affascinati dalla storia che lei ha saputo tessere! No?»

Filippo fa spallucce: «Le fidanzate non sono il mio campo» e lascia che parli l’altro per entrambi.

«Beh, certo… Per deformazione professionale probabilmente potrei anche dire… Però poi sarebbe la mia ragazza e io sarei, insomma, arrabbiato con lei, ecco, sarebbe quella la mia reazione, credo…»

«Questo è perché non sai riconoscere che la narrazione può essere dappertutto. Ma aspetta, perché ora sveglio Teresa e ne parliamo un attimo con lei».

Gero continua a parlare urlando dall’altra stanza e i due non riescono a capire perché non li raggiunga. Starà svegliando la sorella? Staranno parlando per impartire loro una lezioncina sull’arte e la vita e robe così? Non ne hanno molta voglia. Restano da soli un po’ e annoiati cominciano a girare nel disordine della stanza dove, accanto a pile monumentali di vestaglie sporche da donna, ci sono vasi e vasi con fiori secchi da tempo, in particolare gigli e girasoli, e un solo mazzo di tristissimi crisantemi. Sono un po’ innervositi entrambi per la situazione stramba e cominciano a conferire a bassa voce guardando fuori dalla finestra per non farsi sentire.

«È colpa tua se ci troviamo qua, lo stimi troppo e sei troppo disperato quindi accetti qualsiasi cosa insana gli venga in mente? Cazzo, a quest’ora potevamo ancora essere tranquilli al bar a bere qualcosa e invece siamo qui a-ad aspettare tipo un’interrogazione!»

«Dai, dieci minuti e andiamo, smettila di rompere per niente, tanto io…»

Il tacchettio li interrompe; si girano e nell’ombra non vedono altro che una figura altissima. Forse Teresa…?

«Sono o non sono anche io un grande narratore?»

Si è preparato in fretta, ma non ha scordato nemmeno un particolare: la parrucca, la cipria, le mutande contenitive e la vestaglia, quella verde smeraldo oggi. Si guarda riflesso e non crede si possa fare meglio di così. Sembra davvero la donna di cui racconta da anni. Sembra davvero Teresa per come l’ha immaginata sempre lui.
E col tempo, è migliorato, deve ammetterlo.

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Quando era più piccolo, non aveva mai avvertito la necessità del travestimento: per il compleanno dei suoi sette anni, un lontano parente si presentò a casa con una bambola a grandezza naturale in dono. Pensava che i suoi genitori avessero avuto una bambina — pensava che Gero fosse diminutivo di Géraldine, e non sapeva come scusarsi per l’increscioso incidente. I genitori di Gero avevano riso dell’accaduto e avevano detto che l’avrebbero tenuta in una bella teca, se mai fosse arrivata in famiglia una figlia femmina.

Lui ne fu ipnotizzato da subito e la portò in camera, di nascosto: sulla confezione il nome, Teresa. Cominciò la loro storia d’amore: parlava con la sorellina-bambola e si inventava un sacco di avventure in cui loro due potevano essere sempre in coppia, l’eroe e l’eroina. Quando gli zii chiamavano, chiedeva sempre se era un problema che lui si portasse sua sorella Teresa; loro ridevano su quell’attaccamento alla bambola e rispondevano che no, non c’era nessun problema.

E però il suo corpo cresceva e maturava, ma Teresa non teneva il passo con le metamorfosi e gli indurimenti del corpo che da imberbe e calmo si fa villoso e scattante; soffriva immensamente nel vedere che lui andava avanti e lei rimaneva ferma ai loro sette anni. Certo che si rendeva conto che era solo una bambola, ma l’anima che le aveva plasmato era una cosa reale. Serviva una vera e propria trasmigrazione e il supporto cambiò.

A quattordici anni aveva costruito un’altra bambola con le sue mani. La seconda Teresa era bellissima e, anche un po’ vergognandosi, un paio di volte aveva provato ad avere un rapporto sessuale con lei; era ripiena di gommapiuma e aveva praticato un forellino che doveva essere un ingresso a lui riservato. Era stato inizialmente impraticabile e successivamente davvero sgradevole; Teresa piangeva.

Decise che dove non arrivava la fisicità si sarebbe potuta spingere la fantasia: distrusse la seconda Teresa solo dopo averne baciato ogni centimetro di epidermide gommosa. I genitori di Gero avevano capito da tempo come passava il suo tempo con le bambole: comprarono un appartamento per fargli sfogare i suoi momenti peculiari, e anche perché averlo sempre in casa cominciò a essere imbarazzante per tutti. Gli fu detto che dopo scuola poteva andare lì nell’appartamento di famiglia, tempio dedicato alle storie isteriche del loro albero genealogico. Isterie di donne.

Era un adolescente bello e fatto e continuavo a rifiutare il contatto con una qualsiasi ragazza che non fosse la bambola — alla quale da tempo aveva dato il ruolo di sorella, amica, amante.

Quando aveva smesso con le bambole, aveva cominciato con il travestimento. Quando si sentiva giù in quel grande appartamento desolato, perimetro della sua malattia, si metteva una delle vestaglie della mamma che si era portato dietro, si truccava il minimo indispensabile per sembrare femminile e cominciava a far finta di essere Teresa, la nevrotica, frigida cicciona, perennemente ammalata di nervi che voleva accanto a sé non il marito, non i genitori, ma il fratello adorato, Gero.

Tutto questo era proseguito fino a che i genitori un giorno lo avevano trovato a masturbarsi, parlando alternatamente con voce da uomo e da donna: avevano, all’incirca di comune accordo, che fosse meglio per lui allontanarsi dalla città e lo convinsero a prendere la patente per il camion. Per dieci anni locali di bassa lega e donne di nessun valore erano stati la sua vita.

Poi era tornato e le vecchie, malsane abitudini erano tornate a galla: e riprese ad annegare in esse un po’ alla volta. Aveva ripreso a travestirsi da Teresa e, per tenere tranquilla la sua coscienza che gli parlava con la stessa voce lagnosa di sua madre, aveva preso l’abitudine di farsi psicoanalizzare da una cialtrona, che gli continuava a ripetere che questa assimilazione del Sé nell’Altro è una manifestazione tipica del narcisista problematico che non è riuscito a uscire dalla sua fase anale e che Teresa non esiste. O qualcosa del genere.

Per tutti questi motivi i due amici, Cip e Ciop, sono in casa sua ora: dopo la morte dei genitori — e quella fresca di Elias — al mondo rimane solo la psichiatra a poter indovinare in parte cosa lui sia riuscito a realizzare in tutti questi anni di disciplina, sacrificio e inventiva.

Quando Elias l’aveva scoperto era caduto in uno stato di catalessi: a Gero era sembrato che l’amico avesse preso particolarmente male il fatto che la generosa impresaria non era la sorella di Gero, ma solo lui con qualche accessorio in più, e che in realtà scuciva i soldi ai genitori per rifocillare quel vizietto del teatro che era materiale buono per quell’altro vizietto del travestimento transessuale. I genitori avevano sempre sperato il contrario: se può fare l’attore, magari gli passa l’altra mania di giocare con bambole a dimensione umana e rubare capi femminili dai negozi. Poveri mamma e papà, sono stato una delusione solo perché non avete mai capito un cazzo di cosa sia la grandezza e la bellezza. E adesso siete morti, pace all’anima vostra.

Elias, l’unico amico su cui avesse mai potuto contare in una vita intera, lo aveva abbandonato ma Gero è sicuro che si sia portato il segreto nella tomba… Gli viene da ridere: non c’è nessuna tomba per Elias. Quello s’è lasciato mangiare dagli avvoltoi piuttosto che chinare la testa e andare sottoterra come tutti.

A Gero serve solo che qualcun altro sappia e applauda. O che scappi terrorizzato; a lui va bene lo stesso, ma l’arte ha sempre bisogno del suo pubblico. Altrimenti è il corrispettivo di una sega.

È quasi certo che, nonostante tutti i paroloni pomposi, la psichiatra non abbia mai dubitato della veridicità della sua storia perché lui è riuscito a dare a Teresa una sua voce, una sua personalità, e questo senza dubbio depone a favore delle sue capacità attoriali. Lo sa di essere bravo però — come dire? — ogni tanto anche lui ha bisogno di conferme.

La psichiatra ha pensato di sfidarlo quando gli ha chiesto di portare con sé Teresa, per fare una seduta insieme. La psichiatra si è spaventata solo un po’ quando ha visto quanto in fretta accade il passaggio di testimone tra fratello e sorella. Gesticolazione, registro linguistico, voce si danno il cambio come il battito d’ali di un colibrì. Incommensurabile.

Da un po’ di tempo, per vedersi esistere ancora un po’ di più, per sfondare la parete della diffidenza verso il mondo esterno, si omaggia spesso con dei fiori: chiama il fioraio, camuffa la voce e ordina mazzi su mazzi di gigli, e poi aspetta che venga a consegnarli sempre il solito rozzo fattorino, risponde con la voce di Gero — poi ribatte con la melliflua voce di Teresa — i fiori arrivano e li prende attraverso la porta appena schiusa. Poi corre in camera, si traveste e quando torna in soggiorno è ormai Teresa, annoiata dal mazzo che il marito — marito fatto solo di calligrafia nera sul biglietto –, Teresa che si butta sciatta sul divano, Teresa che non parla altro che di lasciarsi morire.

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Prima di entrare in sala, si dà un bacio di incoraggiamento nello specchio e si presenta di là, dai due che stanno aspettando lui e Teresa.

«Sono o non sono un grande attore?»

Li vede che tremano, vorrebbe aiutarli a capire, anche se sembrano sul punto di aprire la porta e precipitarsi fuori per andare a denunciarlo alla polizia. Solo che li guarda, e li odia; odia il fatto di aver scelto male il pubblico, due incolti zotici che continuavano a guardare male la sua creazione artistica più longeva.

Odia il fatto che loro avranno successo con le loro arti visive del cazzo, e lui dovrà per sempre tenere confinata la sua arte immensa in quell’appartamento lurido.

Li odia perché ha cercato di inserire nelle loro testoline cose grandi, più grandi di quanto la loro fessura mentale possa permettere.

Odia profondamente questo momento che la sua mente sta registrando suo malgrado. Li odia davvero, eppure non c’è modo in cui potrebbe dirglielo. Semplicemente rimarrà lì a sorridere in attesa di un giudizio sulla sua interpretazione. Si mette a sedere a gambe incrociate davanti alla porta e sorride, da vera signora.

Deve dirlo alla sua psichiatra che sta davvero migliorando.

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