Sepoltura celeste

silia gala
22 min readNov 19, 2024

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Solo sul finire dell’estate si rende conto di essere povero.

Non se lo ricorderà mai, ma il momento che gli cambia la vita è questo: è al supermercato e comincia a infilarsi le mani in tasca, e in borsa, e nel cappotto, e poi nella ventiquattrore. Ma non si accorge di nulla, è distratto. Prende comunque il salmone dal banco frigo, e pensa che pagherà con la carta, perché ancora non sa che il conto in banca risulta prosciugato e le carte smagnetizzate. Non può crederci, non può essere vero. La situazione va al di là della sua comprensione: in un bar, prima di rientrare a casa, sfoglia furiosamente i giornali per capire se c’è qualche sfortunata congiuntura finanziaria, qualche mossa del governo che determina mancanza di liquidità, se insomma ci si sta candidando a essere la Grecia del 2009. Nulla e, anzi, alzando la testa dal giornale, Elias vede le persone intorno a sé condurre normalmente le loro vite: prendono un caffè e una brioche, qualcuno corre a chiamare un tassì, qualcuna entra a chiedere quanto costa il vestito a fiori.

Quello che era abbordabile fino al giorno prima diventa un insieme di merci intoccabili, quasi sacrali; i numeri impazziscono e si gonfiano davanti ai suoi occhi secondo oscuri fattori esponenziali e gli sbarrano di volta in volta la strada verso l’acquisto. Capisce all’improvviso, senza averlo mai dovuto pensare in tutta la vita, che la mancanza di soldi va ben oltre la possibilità di potersi permettere del raffinato salmone norvegese: la mancanza di soldi ti stravolge la prospettiva esistenziale. Ora il suo mondo si divide in spazi economici in cui può accedere e spazi per i quali lui non ha pronto in mano il lasciapassare richiesto: moneta sonante.

Elias passeggia per le vie del centro e si trova a boccheggiare sognante davanti alle vetrine che prima erano il vestibolo del negozio in cui sarebbe entrato senza nessuna esitazione. Ora sono solo le stronze ornamenta della sua stronza passeggiata sul lungofiume, e nulla di più. I vetri lo abbagliano, rimandandogli i bagliori della sua miseria. Elias vagola ingobbito, e per non farsi tentare va sempre di fretta anche se nessuno lo aspetta mai da nessuna parte. E tuttavia alle volte capita che con una piccola torsione dello sguardo scorge quell’uomo smagrito, con i capelli da folle e il paltò usurato: se l’occhiata dura un po’ troppo fa fatica a riconoscersi.
Il grande cerchio del mercato sta momentaneamente facendo a meno di lui, e la decisione di licenziarsi arriva quasi da sola, e a lui sembra la mossa più logica da fare: gli sarà riconosciuta una qualche invalidità, o gli sarà certificato uno stato mentale ballerino, ma nessuno vuole davvero starlo a sentire quando singhiozza che non sa dove finiscono i suoi soldi. Solo un barbone, un giorno, sentendolo piangere in un vicolo gli si avvicina per rubargli l’orologio d’oro. Elias scoppia a piangere a dirotto e glielo mette in mano, completamente arreso.

È solo un periodo, pensa, qualcosa succederà, qualcosa dovrà pur migliorare: la nuova situazione economica lo sbigottisce, ma dopo qualche settimana il suo cervello smette di lottare ed Elias si lascia trascinare dagli eventi, impegnando la mente nella frenetica ricerca di scuse credibili per la sua famiglia, che non ha idea di quanto vertiginosamente si stia avvicinando al baratro finanziario. Investimenti sbagliati. Meglio… gioco d’azzardo. Ancora meglio: Vado a prostitute da anni.

Abbassa la maniglia della porta ma prima ancora si dà due pizzicotti sulle guance per riaversi da un lavorio concettuale francamente estenuante, e prima che la moglie gli riversi addosso la iper-pragmatica quotidianità della giornata appena trascorsa — tra melodrammi con le altre mamme e oziosi pensieri sull’abbattitore da comprare –, lui è là che escogita soluzioni puramente verbali a richieste che non soddisferà mai e adempimenti che non adempirà mai e cose che non comprerà mai. Non cambierà l’olio della macchina probabilmente per mesi, anche se lei glielo chiede esasperata da settimane; e no, non troverà per molto tempo l’occasione per prenotare la fuga d’amore con cui ogni anno celebrano il loro anniversario: un costosissimo fine settimana in una baita in cui fingono di non conoscersi e flirtano al bar. Lui indossa un maglione a collo alto e si fa chiamare Johannes, e lei non si depila le gambe perché ha letto in qualche rivista che in Polinesia il pelo lungo sulla coscia è afrodisiaco. Si fa chiamare Johannes pure lei, per semplicità.

Elias guarda sua moglie e sa che non può più scappare e allora: l’Agenzia delle Entrate!, la classe politica più corrotta di sempre!, i Ministeri ciuccia-soldi!, la gerontocrazia onnipotente! Tutto tranne che la verità, per favore, tutto tranne quella. Lei lo guarda abbacchiata, gli dà un bacio sulla fronte e lo lascia nel mezzo del salotto, da solo, e uscendo spegne la luce.

I suoi figli, d’altronde, forse un poco scemi sono, ma sempre molto affamati, e tutto quello che capiscono del mondo lo capiscono attraverso il filtro della disponibilità di cibo. Quando cominciano a subodorare che la madre gli sta propinando da tre giorni la stessa purea di ceci e cavolfiore, impazziscono e cominciano a saltare nella cucina come scimmie dal sedere impepato chiedendo peperoni grigliati, carciofi alla giudia e timballo di pollo. Elias, davanti a sua moglie che lo guarda in cagnesco, ha due epifanie: 1. che è ora di dire la verità, 2. che i suoi figli hanno gusti tremendamente anni Ottanta per quanto riguarda il cibo. Marito e moglie si danno un cenno d’intesa. Il Fisco. La casta dei politici. I familiari-vampiri. No, prova a dire la verità, la capiranno.

«Elias, glielo dici tu o glielo dico io?»

La moglie è sopra di lui sullo schienale della poltrona, inalberata come un fusto d’albero che non ha ancora visto il suo primo inverno, lo ingombra con la sua fisicità ed Elias si sente venir meno le forze.

«Procedi pure tu, tesoro, allora, se vuoi…».

Lei si rivolge risoluta verso i due bambini e annuncia con un tono metallico standard:
«Bambini, vostro padre ha scoperto qualche settimana fa di essere povero».

Elias aspetta che le emozioni arrivino tutte insieme, come il clan dei parenti più temibili alle trimestrali riunioni di famiglia o come le tasse da pagare a fine anno: vergogna, frustrazione, voglia di scavarsi una buca lì nel salotto, entrarci e fare ciao ciao a tutti. Ma è un uomo: quindi rimane lì — con fermezza — sperando che il sonnifero che ha messo nel bicchiere dei bambini faccia il suo corso, e loro si addormentino prima di fagocitare l’informazione.

«Vabbeh, mamma, ma se il papà è povero, lo è solo lui, no? E noi siamo ricchi e glieli diamo noi i soldi a lui».

Eh?! Elias guarda il figlio, il sangue del suo sangue, e pensa che non hanno fatto un buon lavoro con lui: è un po’ tardo, una causa persa. Guarda la femmina, colei che risolleverà le sorti della famiglia, ma sfortunatamente la bambina si sta mangiando le unghie dei piedi. E inoltre si stanno dimostrando entrambi piuttosto resistenti al Temazepam.

«Ok, che siamo poveri»

«Significa che non mi comprate più le scatole grandi delle costruzioni?»

«Forse sì tesoro, dobbiamo fare una nota di tutte le spese e cercare di farle quadrare, capisci?»

«E le scatole quelle più medie

«Non lo so, amore della mamma…»

Il figlio continua imperterrito la lista, sciorinando tutti i giochi che vuole continuare a possedere, mentre la bambina, da sempre caratterizzata da un’attitudine maggiormente prosaica, una volta finito il delizioso momento di autofagia va e viene dalla cameretta trasportando le sue bambole, per immolarle sull’altare della povertà di suo padre.

«Tieni papà, se rivendi a qualche bambina Bambola Magica Ginnasta, puoi fare un po’ di soldini, tanto io ora ho Bambola Ancora Più Magica Ginnasta Di Quella Prima».
Piazza sul grembo del padre tutto quello che a suo avviso è vendibile, e gli dà i numeri delle sue amichette, inconscia di star creando gli estremi per un mercato nero indirizzato a bambine di sette — otto anni.

Elias si riscuote dalle sue fantasticherie di pusher di bambole («Ehi, ragazzina, che la vuoi la Barbie più stupefacente del pianeta?») e mette a fuoco la scena: mentre la moglie piange accarezzando la testolina castana del figlio, e quest’ultimo frigna prendendo a pugni la testa di un dinosauro in plastica e la figlia continua a carreggiare alcuni dei suoi giocattoli per devolverli in beneficenza al padre, e mentre, insomma, tutta questa tempesta emotiva si abbatte sulla famiglia, il cane ne approfitta e caga placido sul tappeto.

Un padre dovrebbe sempre provvedere alla sua famiglia nel bene e nel male. Un padre non dovrebbe infilare le mani in tasca e non trovarci nemmeno uno spiccio.
«Allora, allora allora… Tesoro, bambini… Cerchiamo di calmarci un attimo, d’accordo?».
Prende i figli per mano e se li mette vicino per rinfrancarli un po’.

«Adesso il papà e la mamma parlano e trovano una soluzione a tutto. Voi non dovete preoccuparvi di nulla».

Cerca di sfoderare il suo sorriso migliore all’indirizzo della moglie, digrignando i denti fino a produrre un suono composto da quattro paroline magiche: Chiama. I. Tuoi. Genitori.

Per tutta risposta sua moglie gli risponde con una volgarità in dialetto, vernacolo obliato ma sempre adatto alle occasioni speciali. Elias sa per certo che sua moglie non chiamerà mai i genitori per farsi prestare soldi e sa ancora con più certezza che gli epiteti, gli sbuffi, le occhiatacce finiranno, e lui si ritroverà solo.

Pochi mesi dopo, Elias è fermo, sgomento, nella stessa posizione; solo che siede su uno scatolone nel mezzo del suo nuovo salotto, dove l’unico divertimento che gli è rimasto è contare i giorni in cui ancora non ha pensato di uccidersi: quattro.

Sono finiti gli insulti, sono terminati i rimproveri, si sono perse nel silenzio le urla dei bambini che non capiscono nulla del nuovo stile di vita e continuano a chiedere di andare a Disneyland. Quando li sente al telefono, ovvero quando sua moglie permette ai due bambini di ricordarsi che hanno un padre disgraziato chiuso in una stamberga in periferia, gli promette che un giorno a Disneyland ci andranno. Tutti quei giorni sono una tacchetta in più sul numero dei giorni in cui non gli viene voglia di ammazzarsi. Un’altra cosa per la quale servono dei soldi, comunque.

La situazione di Elias precipita in una spirale autodistruttiva dalla quale nessuna Bambola Ginnasta, per quanto elastica, potrebbe mai salvarlo. Si sente come un limone senza succo, e si sa che la scorza fa schifo a tutti.

Nel posto in cui si è sistemato, poi, c’è tutto quello che serve per rimpiangere la vecchia vita: dalle gore di sporco stratificato sui divani, agli insetti morti nei bicchieri di vetro alle serrande bloccate a ogni finestra, molteplici sono i preziosi finimenti che gli fanno compagnia nel momento più basso della sua vita. Prova a parlarne con il proprietario, perché l’affitto potrebbe essere più basso visto lo stato di degrado in cui il monolocale versa. Il vecchiettino lo guarda e sorride ma nulla da fare, strada sbarrata. Dice a Elias che deve capire, che lui avrà pure 583 anni, ma deve pensare al suo futuro. E alla sua bara, soprattutto: la vuole tempestata di lapislazzuli.

Anche Elias sorride, tradendo un certo sguardo omicida: si accarezza le mani nodose e dice sì, sì, capisco, ci mancherebbe, ha ragione, e cerca di non cedere allo squallore anche se il suo sguardo viene letteralmente ipnotizzato dal cartongesso che erutta bolle.

L’umidità annidata dentro alle pareti è certamente un’altra cosa da sistemare, eppure nei momenti peggiori le bolle non sono male come interlocutori.

Nei mesi si lascia alle spalle qualsiasi pudore e prova tutte le strade: la sorella non risponde nemmeno più al telefono, i giornali a cui manda inserzioni per cercare lavoro non lo pubblicano, forse per mancanza di spazio. E capisce che quello che gli è capitato non è solo una sfortuna, e non sarà mai più passeggera: è la cartina tornasole di tutta la sua vita. Il fatidico giro di boa, che però lo sta strozzando e lo sta portando giù come piombo. Le catastrofi esistenziali devono necessariamente avere una dimensione simbolica, e per Elias è questa: che tutti, nessuno escluso, gli stanno girando le spalle. Preda di una disperazione cieca, comincia a frequentare una bisca nel quartiere, un ingresso stretto tra la lavanderia cinese e l’alimentari pakistano: col gioco d’azzardo non era mai stato male e prende gusto ad andarci, sera dopo sera. Non vince quasi niente, ma è là che annusa che il momento arriverà. Solo che le serate passano, e le sue mani sono generose nell’ammonticchiare fiches vuote di significato. Quando scoprono che gioca senza avere soldi, lo accompagnano in strada e gli lanciano dietro il suo portafoglio, vuoto e sghembo, un oggetto inutile.

Gli rimane solo passeggiare: non ha tv, ha finito tutti i libri in casa, non ha amici con cui andare a prendere una birra insieme perché dovrebbe presentarsi con la smargiasseria di farsi offrire una bevuta. Di giorno conserva con gelosia le energie e poi nel tardo pomeriggio esce, raggiunge il lungofiume e da lì si immerge nella folla orgiastica. Gente in preda alle più basse ossessioni consumistiche, le stesse che si annidavano prima in lui. Dentro i negozi: soldi che vengono allungati, soldi di resto al cliente, soldi che arrivano ovunque, poster adesivi di banconote giganti con la scritta Sconti. Tutto è piegato all’immagine dei soldi, al loro potere, la realtà è un contorsionista che offre sempre e solo il profilo lucente delle cose, e nel frattempo lui si sente esistere così poco — pochissimo — che gli arrivano rabbiose lacrime agli occhi e vorrebbe magari che qualcuno se ne accorgesse, invece l’unico che gli fa un cenno di saluto è il barbone che gli ha rubato l’orologio pochi mesi prima.

Nell’ubriacante sfolgorio di gioielli, dispositivi tecnologi e polli arrosto, una vetrina gli ridona all’istante la sobrietà della mente: un negozio polveroso di chincaglierie provenienti da chissà dove e chissà quando, robaccia da rigattiere che anche un occhio poco esperto etichetterebbe subito come tale.

Nella sua vita di prima, a Elias sarebbe bastata un’occhiata e un’alzata di spalle veloce, e un fastidio che lì per lì non si sarebbe spiegato e che avrebbe capito poi solo una volta a casa. Ecco cos’era: l’orrendo fetore che proveniva da tutto quello che sembrava marcio, di seconda mano, non di prima scelta.

E invece ora solo un negozio del genere si accorda al suo malessere senza scopo, alla sua resa inaccettabile: un disastro lui e un disastro questa vetrina sconnessa dove un manifestino colorato corona tutta l’infernale accozzaglia. Sgargiante, anche piuttosto accurata nei particolari, nel quale un uomo studia con aria tutto sommato assennata degli avvoltoi intenti a fare delle sue interiora vivaci ghirlande aeree. Gli viene da ridere e nello stesso momento striscia dal basso la pelle d’oca: dov’è che l’ha già vista? Mentre ci sta ancora pensando, accanto compare il miagolante viso bruno di un uomo sulla cinquantina che lo incoraggia a entrare.

«Venga, venga dentro signore se vuole dare un’occhiata. Fuori si gela, no?»

(Divincolati, divincolati anche solo per evitare il contatto visivo).

«Grazie, eh, molto gentile ma veramente io…»

«Ho visto cosa guardava con interesse, là in vetrina. Se vuole, le spiego che servizio è.»

(Non chiedere informazioni, Elias, non chiederle)

«Servizio? Quale servizio?»

Il viso miagolante si allarga e si fa ellittico, sembra riempia tutta la stanza con il suo sguardo mellifluo e i denti affilati.

«Immaginerà anche lei che non si tira avanti vendendo francobolli lituani del 1800. Per come sono messe le attività commerciali oggi, diciamo che… Si tende a offrire servizi aggiuntivi per sopravvivere».

Elias non capisce di che cosa stia parlando quell’uomo, non capisce e non ne ha nemmeno voglia. Abbozza un sorriso imbarazzato, vuole solo girarsi per congedarsi quando l’altro lo riprende d’istinto all’amo.

«E più i servizi sono pensati per coprire bisogni che ci saranno sempre, meglio è. Questo comprende tutta una fetta di mercato triste, certo, ma redditizio: e poi, nei giorni migliori, ci si riesce a sentire anche un po’ bene con sé stessi, dopotutto…»

(Corri, ora: non lo conosci, non importa essere sgarbati, vattene adesso)

«Mi deve scusare, ma io non capisco sinceramente il punto»: dà uno sguardo all’orologio, prima di ricordarsi che non ce l’ha più. Non si scompone troppe e osservando il polso nudo aggiunge che è ora che se ne vada, ha anche un appuntamento più in centro, deve proprio andare, grazie davvero — arrivederci.

Il proprietario scoppia in una vibrante risata liberatoria: «Io, a lei, l’ho subito capita, sa? Stava là fuori, guardando quell’immaginetta là — ed era così concentrato che io ho capito subito, va là…»

«Ah, davvero? E cosa avrebbe capito?». Il tono di Elias ora è altezzoso e infastidito, non ha più ritegno nell’apparire sgarbato perché vuole esserlo, non capisce come sia possibile che quell’uomo gli parli…

«Lei, caro signore, sta cercando disperatamente il modo giusto per morire».

Il mondo esplode mentre il proprietario conserva il suo sorriso foderato di sicurezza, lui l’artificiere della detonazione, il manovratore del preludio al caos. È un attimo ed Elias è sdoppiato — continua a essere sé stesso, nella situazione irreale in cui si trova davanti un uomo che gli espone la possibilità di farla finita — ma non c’è nulla di brutale, è come se parlassero dell’ennesima area erosa dal mercato. Ed è pure un passo oltre, in una soglia dove ha già accettato di restare ad ascoltare. Non se n’è andato, non ha girato i tacchi, ha messo in pausa la voce abrasiva nella testa per ascoltare un vate inaspettato.
«Non ha fatto bene i conti in tasca, le sono venuti a mancare dei soldi, nemmeno lei sa come… no? In famiglia l’hanno presa male e forse l’hanno abbandonata — tiro a indovinare, eh! — e lei non si dà pace, anzi!, è da poco che si dà pace, da poco che ha accettato. E poi, e poi è arrivato qua, ha visto questo piccolo antro che spunta in mezzo a negozi che sembrano fregarsene della sua esistenza. Quell’immagine là, no?, a prima vista non l’ha capita, ma in qualche modo l’ha incuriosita, e se tutto succede per un motivo, non è un caso che in mezzo a tutto il disordine lei abbia guardato lì…».

Gli si avvicina, Elias sbarra gli occhi davanti all’olezzo orientale da quattro soldi che l’altro trascina con sé. Esotismo a buon mercato, multiculturalità con la percentuale ribassata.

Elias strabuzza gli occhi e cede a un colpo di tosse che gli tolga l’imbarazzo di proferire qualsivoglia parola. D’accordo, negli ultimi mesi ha esagerato, ha grattato il baratro e ora — però — ora vuole rimediare. La sua mente non sopporta il carico di informazioni che gli si para davanti: ha bisogno di riposare, ha bisogno di correre da sua moglie, renderla Madonna dalle lacrime purganti e cadere ai suoi piedi per implorare comprensione, perdono e il ritorno alla famiglia. Le parole girano in testa ma non arrivano mai al dunque, e il fiato gli muore in gola.

«Questo silenzio è molto eloquente. Credo sia il caso di farle prendere conoscenza del nostro servizio. Le va?»

L’uomo bruno tira fuori da sotto il bancone la cartella Servizi collaterali, e inizia a sfogliarla, quando Elias si ridesta e lo guarda serio, senza più nessuna difesa:

«Fa così con tutti?».

«Solo con chi mi sembra che possa averne bisogno».

«E io le ho detto che ne ho bisogno, per caso?»

«No, non l’ha detto. Però io lo vedo»

«Ah sì? È un sensitivo lei? E cos’è che vede?»

«Non mi faccia essere volgare»

«No, ma la prego, avanti, dica, dica»

«La gente è stanca, la gente non ne può più, c’è chi si asfissia con il gas, chi sceglie il fuoco, chi prima di uccidersi fa una raffica di carezze con un coltellaccio alla propria moglie».

«E questo cosa…?»

«I loro visi si stampano sul vetro, entrano, parliamo, non ho la bacchetta magica, ma tutto si risolve, tutto si può mettere a tavolino»

La mente di Elias si apre e lascia entrare qualcosa — lentamente, come farebbero muscoli sopiti da mesi.

«Io non sono cattivo, sa?»: l’uomo è improvvisamente agitato e suda freddo, Elias lo mette un po’ a disagio nel suo silenzio feroce. Gli dolgono le orecchie e sente gli occhi disidratati, inizia a farfugliare.

«…Un rito funebre tibetano, antico: la sepoltura celeste… Un po’ raccapricciante, sì, ma con una sua logica intrinseca, capisce? Si torna nella materia, qualunque sia la forma. Nessuna differenza tra lei, un batterio o una noce di cocco. E-e mi sono affiancato ad alcuni che erano già nel settore, per garantire la stessa efficacia, anche se dobbiamo riportarlo all’oggi, a noi…»

«Mi scusi, ma questo cosa…?».

«Morire! Ma morire davanti a tutti! Morire, e farlo sapere a chi ci ha ucciso!»

Elias perde il filo, ma rimane ipnotizzato; il proprietario del negozio è sul tappeto, si batte i pugni sul petto e dal suo sguardo sgorga una follia che Elias non riesce a non ritenere lucida, di una nettezza chirurgica.

«Perché, perché la sua morte dovrebbe riguardare solo lei? Perché non può diventare un atto d’accusa per tutti quelli che si sono resi colpevoli? Perché…?»

Quando Elias si inginocchia per mettersi nella stessa posizione dell’altro e scoppia in un urlo animalesco, disperato, percepisce che il contatto con il terreno gli restituisce un vigore ferino che aveva scordato, e sente salire quella rabbia che con prepotenza aveva cercato di ficcarsi giù a forza quando si era addestrato a ingoiare rospi dopo rospi.

Guarda in direzione dell’altro, inclina la testa e sorride: non c’è più bisogno di parole, ha capito quello che c’è in ballo, e non intende approfondire oltre. Lo spiraglio nella sua mente ha ora lasciato entrare tutto il necessario: Elias prende un carillon da uno scaffale e lo carica, porgendolo al proprietario. Non si guardano più perché tutti e quattro gli occhi sono incollati alla minuscola giostra che gira sulle note di Chopin.

Non sa come vestire i figli perché non sa proprio a cosa stiano andando ad assistere, in definitiva, però ha paura. La lettera contenente l’invito le è sembrata precisa nello specificare il luogo e l’ora dell’appuntamento, ma nessuna parola sul “cosa”. C’è solo una citazione di San Paolo, forse un retaggio di quella bacchettona della madre. Tutto quello che può aspettarsi da Elias — che immagina essere sull’orlo del baratro finanziario ed emotivo — è che annunci che la ruota sta cominciando a girare anche per lui, e che ha ripreso a recitare magari. Se così fosse, sarebbe tiepidamente contenta per lui, ma non potrebbe mai prendere in considerazione di ricostituire la famiglia, però sarebbe sollevata dal senso di colpa.

Intanto i bambini sventolano i disegni che hanno preparato per il papà: hanno sentito così tanto la mamma usare al telefono l’espressione “baratro finanziario ed emotivo” che hanno dipinto il papà in bilico su di un burrone, un piede piatto ancorato al suolo e l’altro già per aria, con i soldi che gli scendono dalle tasche e che si vanno a confondere col buio denso dello strapiombo. La linea della bocca del papà è all’ingiù: il famigerato baratro emotivo.

Tra la folla, la moglie di Elias intravede più di una persona nota, mentre alcuni visi sono indecifrabili: un tipo smilzo in piedi ha tutta l’aria di essere il suo migliore amico degli anni del liceo, e forse in fondo, discosta rispetto alla folla, le sembra di intercettare la ragazza che ha infestato la vita di suo marito per anni.

Da lontano è impossibile capire cosa stia per svolgersi, però avvicinandosi a qualcuno sale istintivamente un groppo in gola alla vista di lui steso in terra con gli occhi vitrei che non vedono più il cielo terso sopra di lui.

Già da qualche ora quel corpo è freddo in modo immutabile, consegnato alla morte da chissà quali mani omicide che hanno impresso a chiare lettere “Tu, d’ora in poi, non sei più”: i bambini confrontano il disegno con il loro vero padre steso in terra e ritrovano la stessa linea della bocca: all’ingiù. Ridono pensando che stia scherzando e che si alzerà in un attimo e che potranno saltargli in groppa non appena sarà in piedi. Gli sembra strano sentire infatti l’urlo doloroso della mamma che squarcia l’aria: stanno ancora correndo verso di lui quando lei li blocca e si immobilizza.

Con quel grido è lei ad avvertire gli altri che Elias è morto, che in terra rimane la pochezza di un contenitore vuoto, il quale però conserva il simulacro della normalità — è sempre lui, no?: stessi occhi, stesse braccia, stesso taglio di capelli. I bambini indietreggiano coprendosi i piccoli visi rigati.

C’è chi fa tracimare lacrime di coccodrillo, chi nel giro di un istante diventa adulto e orfano insieme, chi pensa a come filarsela in fretta da questa macabra situazione del cazzo e riuscire a passare un fine settimana normale nonostante l’accaduto. Non c’è un modo intelligente di reagire davanti a un corpo morto quando ci si aspetta di trovare la persona viva, abbastanza viva da poterla abbracciare e salutare.

Un uomo si stacca dalla folla in preda a una risata debosciata, delirante.

«Ma certo che sei proprio scemo, eh! E tirati su che siamo tutti qui, che stai facen-…?»: si avvicina con una camminata scanzonata e tasta con la punta della scarpa il corpo freddo e steso. Non ottiene risposta e dà una botta un po’ più insistente al cadavere, continuando a cercare la complicità di una volta.

«E va bene, sei bravo. Bravissimo! Però ora basta, no?».

Qualcuno del servizio di sicurezza lo riporta al suo posto in mezzo agli altri astanti: c’è mancato che prendesse a calci in faccia una persona già morta. La risata dell’uomo si fa schizoide, interrogativa, ride per chiedere se è davvero come appare e poi scoppia a piangere — non lo sta facendo con gli occhi, che infatti non lacrimano, ma gli viene su un gorgo interminabile e rumoroso da dentro, è un pianto fatto con tutto l’organismo, una cascata di disperazione che lo impegna fin nell’intimo.

Tutti intorno si sentono un po’ più stupidi e spaesati, nell’odioso limbo che un lutto provoca: non si può andare altrove e fare finta di nulla, e di certo non si può restare carichi di tutta l’emotività a filo epidermide. Qualcuno comincia addirittura ad assaporare il retrogusto cinematografico di tutta la vicenda. Un’accozzaglia di storie e visi per celebrare il fulcro della ragnatela sociale che tutti insieme formano, ma intorno a un ragno che non tesse più: nessuno di loro conosce il vicino di gomito nella folla e pure ispezionandosi a vicenda rimane difficile capire le connessioni che li portano là.

L’imbarazzo satura l’aria per altri lunghissimi minuti, poi quelli più lontani e scettici principiano a parlottare tra di loro di quanto assurdo e sconveniente sia questo trovarsi là e di quanto sia sconveniente tutto ciò. Qualcuno inizia a capire che c’è sotto una questione di soldi, e mentre l’affollamento attorno al corpo si va decongestionando, una stentata voce esotica li inchioda di nuovo alla scena.

«Guardatelo bene. Quest’uomo altri non è che la vostra vittima, vittima almeno un po’ di ognuno di voi e per motivi a volte ovvi e a volte no. Non c’è nulla di casuale. Lui voleva così, e come San Paolo si rivolge ai Filippesi: è più necessario per voi che io rimanga nella carne».

Molti di quelli che danno le spalle al grottesco teatrino d’improvviso pensano che sarebbe sensato perlomeno fermarsi ad ascoltare l’uomo foderato completamente di arancione che li addita e che sta pregando la famiglia, gli amici più stretti e i conoscenti di avvicinarsi fino a formare un cerchio.

La moglie non può più reggere la farsa: i bambini le stanno attaccati ai fianchi e la cingono impauriti, nascondendo i visini rossi di pianto in mezzo alla giacca che lei ha scelto con tanta cura; c’è in terra il cadavere di suo marito, c’è una folla di persone che aspetta qualcosa dal cadavere di suo marito, e ora c’è anche un pazzoide vestito da bonzo che pretende di sistemarli in cerchio. Capire diventa difficoltoso, e si ritrova a obbedire come in sogno, sentendosi avanzare di qualche passetto verso il corpo esanime del marito. Dietro di lei, tutti stanno aspettando la sua reazione per decidersi loro stessi a procedere o meno e prestarsi a quella grottesca coreografia: poi rimangono interrogativi, muti in attesa di ricevere più informazioni dal finto bonzo.

Quando tutti risultano collocati nel modo giusto in quell’enorme atomo, l’uomo arancione si piazza sui gradini che sono alle spalle del corpo in terra, dominando con sguardo spiritato tutti i presenti raccolti:

«Signore, signori. Rimane ancora qualcosa da dirvi e ho io il compito di farlo. Vorrei che ognuno di voi ascoltasse le parole come se fossero una confidenza detta in un orecchio:

‘Mi mangeranno degli avvoltoi, ma non sono i peggiori che incontrerete o che io ho incontrato. Lascio il mio corpo così, sperando che ognuno di voi capisca qualcosa che finora non ha capito».

In molti non colgono il riferimento agli avvoltoi, altri si stringono al proprio partner e qualcuno sbircia il cellulare per vedere l’ora. Qualcuno scatta una foto alla scena e la invia corredata da un’emoticon triste.

«Può farsi spazio il rogyapa e cominciare il rito», e arriva un uomo piccolino ma ben piantato in terra, che di orientale ha giusto un tatuaggio scritto in giapponese sull’avambraccio; col maglio che pesa probabilmente qualche decina di chili trascina se stesso fino a Elias e comincia a martoriare con palpabile indolenza il corpo morto in terra, senza provarci alcun gusto, e si sforza di ricordare la sua autodisciplina quando dalla folla si levano le solite bestialità e il lancio di piccoli oggetti: sempre così ogni volta che lo chiamano a fare questo lavoro del cazzo. Gente che lo prende a male parole nemmeno fosse un criminale, signore per bene senza ritegno, bambini che si tappano gli occhi per cancellare la bua. Sa di sembrare un boia disgustoso, ma a monte di tutto c’è un legittimo contratto di prestazione occasionale, che prevede tariffe e straordinari. Non è né magia né una setta: è lavoro.

Si accovaccia e, sbadigliando vistosamente, accende il ginepro in mezzo al putiferio che sta montando: le persone presenti si sono ribellate e hanno rotto il cerchio mentre il bonzo cerca di riportare ordine, ma nessuno ha più intenzione di dargli retta.

La realtà stride un poco, a toccarla. A qualcuno viene in mente che questa storia non deve avere seguito. Parlarne mai più con nessuno, e si deve fare perlomeno un salto dai vigili urbani per farli intervenire, ma gli avvoltoi arrivano quasi subito, magnetizzati dall’odore della carne putrescente mista al ginepro che loro sembrano gradire sopra tutto, e affrettano il loro volare un po’ svagato quando si trovano nell’area in cui la fragranza del loro prossimo pasto riempie i polmoni anche senza fiutarla. Gli uccelli scendono in picchiata dopo aver individuato il cadavere, impazziti con la crescente intensità dell’odore — mentre più sotto, al livello del terreno — gli umani hanno rotto le righe senza indugio e cercano di disperdersi in fretta e in furia.

Quelli del cerchio più interno — sotto la gravosa responsabilità di sentirsi i più conniventi — rimangono in posizione, tremando: li vedono anche loro i predatori che si avvicinano vorticosamente alle loro teste, li sentono anche loro i brividi a fior di pelle, ma sono gli unici a poter andare fino in fondo alla vicenda. L’uomo in arancione fa ampi cerchi con le braccia quasi voglia unirsi al volo degli avvoltoi che a mano a mano scendono al livello dei loro visi: «Lasciate che vi presenti voi stessi».

Uno degli uccelli comincia a occuparsi di sfilacciare meticolosamente tutta la lunghezza dell’intestino di Elias; un paio si dirigono verso l’antica faccia e ne tirano fuori gli occhi, la lingua, iniziando a beccare con rinverdito vigore dentro le narici; i restanti, forse più ghiotti, girano attorno e di tanto in tanto frugano all’interno delle budella per tirarsi fuori un piccolo pezzetto di fegato o di stomaco e ingollarlo con avidità.

Il corpo di Elias si disfa e perde la propria figura umana sotto l’attenta sforacchiatura che gli avvoltoi stanno portando a termine, un corpo esausto e crivellato che però non ha smesso di significare, non ha smesso in qualche modo di parlare. I figli sono nascosti da qualche parte con le manine premute forte sugli occhi, ma la madre non li ha seguiti: cerca di rimanere a galla e di non soccombere alla logica perversa dei fatti.

«Questa è l’ultima cosa che mi rimane da darvi. Accettatela»

Il bonzo ha preso a girare tra loro che sono ancora in cerchio vicino a Elias e si mette e a distribuire parte delle viscere che gli avvoltoi non hanno trangugiato. Il martoriatore spegne la sigaretta sotto il tacco dello stivale e, aprendo una minuscola agendina piena di macchie, traccia una grande X su Elias T.: ore 6.00, e ride guardando quelle mani aperte.

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silia gala
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