Un’ora sola vi vorrei

silia gala
7 min readJan 2, 2025

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L’ultima cosa che ho chiesto alla mia psicoterapeuta è stata: dammi dei compiti, fammi scrivere, fammi ricordare quell’infanzia — la mia — che, ogni volta che viene messa a fuoco, sfugge ai lati del campo visivo. Se la teoria dell’attaccamento è la nuova scienza dell’amore, la neolingua che dice che, a seconda di come si è comportata nostra madre trent’anni fa, intrecceremo un certo tipo di rapporti, lo schematismo che assume che gli evitanti e i fobici non devono mai incontrarsi altrimenti sai che problemi. Fammi ricordare, fammi scrivere, dammi l’occasione di sfuggire alla lingua programmata: il ricordo si manifesta come esistenziale se e solo se non chiama a sé modellizzazione alcuna. Fammi scrivere, fammi ricordare.

  1. Pensare a loro è tornare indietro a un posto sordo; è regredire in un punto opaco dentro di me dove io non ho nessuna età ma un elemento eterno costante. Mi percepisco come un solido geometrico all’altezza dello sterno che subisce gli urti ma non si muove da dov’è. Mi sento come se il fondamento della realtà fosse il rapporto che ho con entrambi e sento che ogni volta che faccio una scelta oppure un’altra io sto sempre decidendo tra principio materno e principio paterno. Mi sembra di esistere da sempre e mi sembra anche impossibile che loro siano altri, che non siano esattamente loro con tutto il portato che ho caricato sulle mie spalle. Come potrebbero non essere loro gli agenti della perfetta compenetrazione che ha creato me? Forse al fondo di ogni rapporto intimo sussiste quest’ambivalenza: casualità assume le sembianze della causalità.
  2. Ho detto a I.T. che, secondo la mia visione, ho esperito un attaccamento di tipo sicuro; dico che mia madre, dal suo seno, mi ha fatto suggere latte e sicurezza — solo che ho risucchiato pure la sua. Le parlo di amore incondizionato ma lei prova a suggerire: cerca di ricordare se tua madre c’era nei modi in cui ti serviva. Farfuglio qualcosa e il verdetto è: forse però non è un attaccamento sicuro, forse è ambivalente. Ma non voglio sovradeterminare i tuoi ricordi — non è nemmeno il mio campo di specializzazione. Qualche giorno dopo le mando una mail: ho deciso e capito dentro di me che la prossima seduta è l’ultima. Se arrivo a chiedere dei compiti significa che sto istintualmente mettendo in moto il ribaltamento dei modi in cui mi sono abituata a parlare di infanzia, famiglia, traumi. Le mando una mail congedandola e intanto monta in me il risentimento: mia madre c’è sempre stata e fino alla mia adolescenza è stata un genitore attento, entusiasta di me, empatica — e poi sì c’erano quei giorni là, di nebbia e rossetto sbavato, ma avevo già sviluppato gli anticorpi per gestirlo. O anche questo è un falso ricordo?
  3. La faccio sedere sul letto — so che il mito delle origini è costitutivamente di destra, eppure è il posto in cui non c’è intralcio tra la lei bambina e la me bambina. Ci incontriamo in un campo neutro che è il 1965 e anche il 1995, lei ha cinque anni e io quattro e siamo ancora bambine spensierate, primogenite (unicogenite, nel mio caso) portate in trionfo. Prende le foto in bianco e nero, e indica il suo faccino tondo: qua ho tre anni, qua dieci, qua sette, qua siamo al mare, qua a fare un picnic, qua nonno mi aveva portato a caccia in groppa a un pony. Quando parla di me, dice “quando eravamo piccole” perché ci siamo scambiate i ruoli per molti anni. A lei non dispiace che io mi sia presa cura di lei, a lei ha fatto comodo trattarmi come una madre. A me è venuto naturale farlo. Il mio linguaggio d’amore è stato comportarmi da adulta fin da bambina.
  4. È così grande che è innominabile: non è mai stata al centro di quello che scrivo perché è troppo ingombrante. E perché non potevo farle questo. È entrata di sguincio nel racconto della malattia ma meno di quanto mi sarei aspettata di essere pronta a esporre. Posso eleggerla a tema solo per frammenti, per falsi ricordi, per schegge. È tutto il male del mondo e anche la forma delle cose per come le ho conosciute, è l’imprinting di tanto se non tutto, in negativo e in positivo.
    Mi sento in colpa verso lui, lui che non ha avuto lo stesso peso specifico — perlomeno a uno sguardo che rasenta la superficie. Ho spesso il sospetto che quello che ha lasciato lui germoglierà silenziosamente; ho idea che, quando lui non ci sarà più, un giorno mi uscirà una rosa dal petto e io la guarderò e dirò: eccoti. Ci sei sempre stato ma non me lo hai mai detto. Hai co-creato ma non te ne sei mai voluto prendere il merito — il merito contribuiva a costruire identità ben più fragili.
  5. La sede fisiologica del rapporto con lui è il Leroy Merlin: quando prendiamo la sua macchina scassata per andare a perderci tra gli scaffali di sifoni, viti e tavole di rovere lui sta bene. È dove può fare il padre, aderendo al suo animo pratico e pragmatico, che mi verrebbe a prendere in capo al mondo se solo alzassi un sopracciglio, ma che non riesce a dirmi mai “Brava”. Che non riesce a farmi sentire un essere umano soddisfacente ma che mi ha sempre fatto sentire adulta. Una brava adulta, responsabile, razionale fin dai miei sei anni. Gli undici mesi che ci sono voluti per i lavori nell’appartamento hanno coronato la concezione che ho del suo linguaggio d’amore: ansimante sull’ultimo gradino dello scalandrino bestemmia ma è nel pieno del suo elemento paterno. È utile, è proattivo, l’odore di stucco lo mette di buon umore. Raddrizzare la mia scelta in materia di piastrelle lo rassicura. Prendermi in giro su come rivesto il tavolo lo solleva. Sapere che la casa l’abbiamo costruita insieme gli procura benessere — “Certo, quell’appartamento è venuto proprio bene” è il refrain di ogni volta che ci vediamo.
  6. Quando torno a casa sua, la prima cosa che faccio è mettermi a pulire — come se pulendo i pavimenti io potessi pulire un po’ anche lei. L’astio per le forme di vita che non sono la mia o che la mia testa non arriva ad abbracciare ho iniziato a provarlo dentro la casa di provenienza: amo lei ma rifiuto ostinatamente, disprezzandola, la forma di vita che si è scelta, nella quale si è nascosta. Non pulisco riassetto spolvero aggiusto spruzzo per aiutare lei, lo faccio per eliminare il mio nervosismo, lo faccio per smetterla di essere alterata — è un atto autoreferenziale ed egotico ma ricoperto da una sottile venatura di apparente altruismo. Basta rimanere in superficie; ma ogni tanto lei vuole indagare. Com’è tutta questa foga, mi chiede; mi fa schifo una casa sporca, le rispondo.
  7. «Tu hai gli occhi di lei che ha gli occhi dell’altra»: la psicoterapia di matrice sistemico-relazionale sicuramente non ha di certo aiutato ad allontanare lo spettro della matrilinearità. Prima venne la famiglia — l’individualità può solo accompagnare.
  8. Siamo a pranzo in montagna con amici suoi, alcuni sono familiari, altri non li ho mai visti. Non mi mette mai al centro dell’attenzione; so solo che va in giro dicendo che non gli ho mai dato un problema. Questo è il massimo che si permette di dire su di me.
    A un certo punto, però, siamo in questo esatto momento di qualche mese estivo fa, decide che vuole sfoderare la figlia scrittrice — sbagliando — e si mette a parlare di un articolo che ho scritto nel cui incipit era riportato un abbozzo di ritratto di una persona che conosce e che stima. Una persona tradizionalmente intoccata dalla letteratura — ed era proprio questo il punto del pezzo scritto da me. Davanti agli altri dice che si è commosso — vedo delle lacrime anche mentre lo dice. E il suo migliore amico — anche lui l’ha letto, anche lui ha pianto. Vado a fumare una sigaretta, ho un groppo in gola. Quando non sono più a portata di sguardo, sorrido guardando le montagne di casa mia.
  9. J. mi chiede: perché sei scesa a casa ’sto fine settimana? Perché ho paura che mio padre muoia. Risponde: fossi un’altra persona penserei che è una posa, invece so che mi stai dicendo la verità. Vado a trovarlo come fosse una convocazione: finge di non voler parlare del dolore che gli provoca non avere più alcun rapporto con la sorella da tre anni e mezzo. La messinscena dura meno di dieci minuti; seduti ai due lati della scrivania, mi chiede consiglio su come comportarsi e sulle scale, mentre sto andando via, mi dice: ci penserò, quello che dici rimane impresso. Non è vero ma mi piace sorridere e acconsentire: sì, lo so, dai poi ne riparliamo quando vuoi. Anche oggi non ha chiesto niente su di me. Ma non importa: sono comprensiva, sono forte. Ho degli anticorpi grossi come mandarini da opporre all’incuria di mio padre.
  10. Il primo ricordo che ho dell’infanzia: io che svuoto i tetrapak di vino scadente perché avevo notato che quando apriva la piccola credenza a sinistra del forno poi diventava insieme aggressiva e assente, barcollava ma intendeva colpirmi, stralunava gli occhi che però dardeggiavano. Il primo ricordo che ho dell’infanzia: io con una palla rossa di gomma, dei calzoncini verdi, che busso alla porta del garage di mia nonna ma nessuno mi risponde. Il primo ricordo che ho dell’infanzia: nascosta dietro la porta li sento urlare. Non saprò mai chi ha alzato le mani per primo, forse non vorrò mai saperlo. Ho paura che questo sia il vulnus che condiziona tutta la mia vita da quel momento in avanti. Ho paura che se non sbroglio questa matassa non sarò mai serena — è una delle poche cose che non ho detto durante l’intenso lustro di psicoterapia, quanto è ironico il destino. Mi vergognavo di dire: non so se a picchiare abbia iniziato mia madre o mio padre. Io ricordo solo i gesti di lei, il tirare le cose di lei, gli improperi di lei. Di lui ricordo la stasi, la passività, il silenzio; quel suo modo indolente di stare fermo sul divano mentre intorno si scatena il cataclisma emotivo di mia madre. Chissà se questo incide sui rapporti che vado disperdendo, chissà se non essere mai sicura di questa vicenda sarà un’ombra imperitura, chissà se rifiutare di rendere tutto lineare e chiarificato tutela la riserva fosca, il punto buio che permette a tutto il resto di essere in luce.

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